Share

Sostieni il nostro lavoro

Sin dai tempi dell’antica Grecia, come attestato da Aristotele, la medicina è da ritenersi un perfetto accordo tra Arte e Scienza: Scienza come conoscenza di tutte le circostanze relative alla salute dell’uomo ed Arte in quanto capacità di applicare tale conoscenza alla cura delle malattie.

La parola ”arte” applicata alla medicina deve essere intesa come quell’insieme di intuizione, illuminazione, attenzione, emotività, passione e umanità indispensabile acché la competenza tecnico/scientifica abbia una sua giusta attuazione al fine di fornire cura appropriata al paziente. In effetti, qualunque tipo di analisi medica ha bisogno di qualcuno capace, con la sua competenza, la sua esperienza e la sua intuizione, non solo di leggerla, ma anche di collegare ciò che essa dice ad altri aspetti del paziente che essa non dice prima di formulare una diagnosi che sia giusta ed adeguata. Del resto la medicina, rivolgendosi proprio all’essere umano, formato da corpo e mente, non può che rispecchiarne la dualità. Dualità presente nella frase: “Mens sana in corpore sano” che Giovenale, nel I secolo dopo Cristo, inserì nelle sue Satire indicando che, per stare bene, è importante curare sia il corpo sia la mente senza trascurare la salute di nessuno dei due componenti umani. E se è vero che una mente sana risiede in un corpo sano, è anche vero che un corpo per dirsi veramente sano ha bisogno di una mente altrettanto sana.

Come sappiamo, la mente, o psiche che dir si voglia, gioca un forte ruolo sul benessere del corpo tanto che da più parti si sente parlare di malattie psicosomatiche dimenticando che, quando il corpo sta male, la mente ne risente al punto che sarebbe bene parlare anche di problematiche somatopsichiche. Per essere in forma, insomma, corpo e mente debbono essere in equilibrio così come lo debbono essere Arte e Scienza in chi cura. Il sempre maggior divario che si è andato accumulando nei secoli, e soprattutto negli ultimi tempi, tra Arte e Scienza a largo favore di quest’ultima, ha portato, purtroppo, anche ad una impropria divisione di genere e ruoli: si tende, infatti, ad attribuire la parte tecnico/scientifica ad una realtà maschile lasciando al femminile quanto è legato alla “cura” commettendo così un atto deleterio per il bisogno di completezza dell’essere umano. Nei secoli, il progresso medico ha portato ad enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che un recupero legato al concetto antropologico della salute. La malattia, però, ai giorni nostri ha assunto nuove connotazioni e richiede una visione olistica delle relazioni tra corpo, psiche e ambiente al fine di permettere al paziente di riappropriarsi del proprio processo di guarigione, recuperando e valorizzando gli aspetti emozionali, intellettuali e sensoriali.

Qualcosa, fortunatamente, sta cambiando e nuove iniziative vengono sempre più promosse per riuscire a ritrovare quell’unità necessaria al raggiungimento di un equilibrio che è già di per sé una cura. Si è iniziato, ormai da qualche anno, col rendere architettonicamente più piacevoli quei luoghi di degenza dove le cure vengono somministrate, cioè gli ospedali che stavano diventando sempre più vere e proprie “macchine per guarire il malato” senza tenere conto delle esigenze di chi in essi veniva curato. Si stava dimenticando che il termine “ospedale” è derivato dal latino “hospitalia” che indicava le stanze dedicate agli ospiti che si trovavano nelle domus romane (ve ne sono, ad esempio, nella Villa Adriana di Tivoli) e custodisce in sé un concetto di casa di cura diverso da quello, rigido, a cui siamo abituati che non permette di contenere tutti gli aspetti che al giorno d’oggi l’ospedale ingloba. Un monito in questo senso ci viene dalla mostra “Hospitalia. O sul significato della cura”, in svolgimento fino al 7 luglio prossimo al Santa Maria della Scala di Siena e dedicata al progetto fotografico di Elena Franco che, attraverso gli edifici ospedalieri storici da lei fotografati in Italia e all’estero, conduce lo spettatore in un itinerario alla scoperta delle storie degli uomini e delle comunità che hanno costruito e gestito questi fondamentali monumenti sociali, vere e proprie cattedrali della cura.

Mentre in passato il malato veniva inserito in una struttura preordinata e macchinosa in cui rischiava di perdere la propria identità poiché identificato solamente per numero e patologia senza tener conto della propria soggettività marcata da sofferenza, paura e angoscia, ma anche da speranza, oggi si va verso un’umanizzazione della degenza. Rispetto dell’essere umano, della sua fragilità e del suo stato d’animo informano, infatti, i nuovi progetti ospedalieri che consentono al paziente di usufruire di un ambiente confortevole che ricorda la sua casa al fine di alleviarne la sofferenza. Per favorire la guarigione, quindi, si studiano in modo accurato gli spazi per ricreare luoghi accoglienti e domestici e ridurre la percezione del tempo di attesa. In particolare, l’attenzione viene rivolta all’illuminazione, alle cromie chiare, delicate e rilassanti, ad un arredo idoneo a garantire il miglior comfort durante la permanenza nell’ambiente e, soprattutto, alla presenza del verde con piante ed alberi che favoriscono quel senso di serenità che solo il contatto con la Natura può dare. Un esempio valido di tale nuova concezione di ospedale è senza meno il progetto, presentato da Renzo Piano che lo ha definito “una casa sull’albero”, per l’hospice pediatrico di Bologna di cui si è posta la prima pietra lo scorso 19 aprile.

Renzo Piano, Rendering dell’hospice pediatrico di Bologna

La ricerca internazionale ha recentemente dimostrato che alcuni fattori legati alla dimensione architettonica/artistica dell’ambiente possono influenzare positivamente il processo di guarigione. Riconoscere, quindi, all’ambiente quel giusto ruolo di supporto al processo di cura, significa porre il paziente nelle migliori condizioni psicologiche ed emotive per sopportare la difficile condizione della malattia. Del resto, questo concetto di ambiente bello utile alla cura viene da lontano, in quanto presente in strutture ospedaliere antiche come quella, splendida, degli Incurabili a Napoli, vero e proprio gioiello barocco che, dall’aprile scorso, rischia, per incuria, di venir giù con tutto il suo incommensurabile tesoro di opere d’arte.

Napoli, Farmacia del complesso ospedaliero degli Incurabili.

L’arte era ritenuta indispensabile alla cura sin dai tempi di Esculapio tanto che gli Asklipeia (gli ospedali dell’epoca) erano contraddistinti non solo dalla presenza di numerose sculture che rimandavano al divino, ma anche da luoghi specifici, quali il teatro, lo stadio, la palestra ed il cosiddetto “spazio dei sognatori” ovvero un luogo di astrazione e concentrazione sul divino. Ai giorni nostri, alcuni ospedali hanno fatto dell’arte un vero e proprio mezzo di terapia per i propri malati arrivando ad accumulare un notevole corpus di opere che abbelliscono i loro ambienti regalando serenità e piacere ai degenti. L’arte, ormai si sa, cura e guarisce e più di una rivista scientifica avvalora questi dati. L’Art-Therapy è ritenuta da tempo una forma di psicoterapia che utilizza la creazione artistica come mezzo per esprimersi, liberarsi e trasformarsi; che sia tramite la pittura, la musica, il ballo, il teatro o la scultura, questo metodo cura grazie alla potenza dell’Arte.

Dagli Stati Uniti al Messico e all’Italia, numerosi sono gli artisti come Jeff Koons, Daniel Buren e Sol Lewitt che hanno contribuito a migliorare i notoriamente grigi e tristi spazi ospedalieri. Il reparto di oncologia del Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ospita, ad esempio, più di 4.000 opere (dipinti, sculture, disegni, litografie) da Pablo Picasso a Claes Oldenburg, da René Magritte a Frank Stella, da Joan Mirò a William de Kooning, da Paul Cezanne a Jackson Pollock, da Vasilij Kandinskij a Jean Arp, da Alberto Giacometti a David Hockney. In Italia, ha fatto da apripista ad iniziative di umanizzazione degli ambienti ospedalieri tramite operazioni artistiche l’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino con l’artista Ferdinando Farina e la sua “Passing on Ice Light”: un’installazione luminosa su plexiglass, dove una linea si muove sul ghiaccio in modo centripeto e irregolare, avvolta da un suono tagliente e veloce. È il segno di una giovanissima Carolina Kostner, già pattinatrice. L’opera fa parte di un progetto più ampio, “Drom”, che in svedese significa “sogno”. L’ultima iniziativa del genere in ordine di tempo nel nostro Paese è quella appena inaugurata presso il Centro di Radioterapia Oncologica del Policlinico Gemelli di Roma che unisce alta tecnologia, arte e attenzione alla relazione con i pazienti. I lavori hanno coinvolto anche il direttore creativo della Maison Valentino, Pierpaolo Piccioli, che ha ideato i disegni che decorano una delle cinque sale della Radioterapia la cui realizzazione è stata affidata alle maestranze del Teatro dell’Opera di Roma.

Grazie all’arte, l’umanizzazione degli spazi di cura può dirsi finalmente iniziata.

1 thought on “La cura è arte e l’arte è cura

Leave a comment.