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Chi intende amministrare la res publica deve far conoscere le proprie idee e i propri programmi e chi già la amministra, a qualunque livello, deve garantire la trasparenza della propria azione. In ogni caso è necessario saper comunicare. Da Demostene a Marco Tullio Cicerone, da Maximilien de Robespierre a Benito Mussolini fino a Silvio Berlusconi quella che i Romani chiamavano ars dicendi, arte del dire, spesso ha legittimato in piazze note e meno note e tra gli scanni delle stanze di comando linee politiche di ogni colore.

L’abilità oratoria, da sola, non può essere garanzia di onestà e di infallibilità decisionale sul piano pratico, ma non di rado ha influito e influisce in maniera determinante sul risultato e sul mantenimento di un elevato indice di gradimento. Il 13 novembre 1974 a New York il discorso del leader dell’OLP Yasser Arafat di fronte all’Assemblea Generale dell’ONU ha portato in ambito internazionale a una significativa apertura a favore della causa palestinese. Il 7 novembre 2012 da Chicago Barack Obama, appena consacrato presidente degli USA per la seconda volta, ha abbracciato il mondo con parole cariche di sentimento e di fiducia nel futuro e ha fatto breccia nel cuore di tanti. Il 7 marzo 2013 a Washington il senatore Rand Paul è ricorso alla strategia ostruzionistica e per impedire la nomina di John Brennan a capo della CIA ha argomentato per tredici ore il suo dissenso, sfruttando le procedure parlamentari che non pongono limiti ai tempi di esposizione.

Se prima, però, gli interventi erano pressoché esclusivamente orali ed erano divulgati dai cronisti della carta stampata e, a partire dal secolo scorso, attraverso la radio e la tv, adesso è principalmente la tecnologia 2.0 a diffondere e a filtrare, o a non filtrare, le informazioni e i messaggi di carattere politico. I comizi e le assemblee mantengono il loro fascino e le conferenze stampa continuano a rappresentare una fase importante nel percorso che la notizia compie tra chi detiene il potere, i mass-media e il popolo, ma è la parola scritta a occupare una posizione apicale nella piramide della comunicazione. E la forza della parola scritta, supportata dalle immagini, ferme o in movimento, è tale da aver permesso al web di acquisire un peso per certi aspetti maggiore rispetto a quello della televisione tradizionale, nonostante il successo di tribune e di talk show.

Quando nel 46 a.C. mostrò ai Romani la scritta “Veni, vidi, vici” per anticipare il discorso con il quale subito dopo avrebbe celebrato la rapidissima vittoria ottenuta ai danni di Farnace II, re del Ponto, Gaio Giulio Cesare esibì una capacità di sintesi non indifferente, degna dei migliori cinguettii odierni. La fantascienza, tuttavia, non esisteva ancora e di conseguenza la mente umana non poteva pensare in alcun modo ai social network e ai blog. Adesso, invece, le campagne elettorali si combattono pure a suon di post e di tweet e può accadere, anzi sta accadendo, che su questi poggino gli esiti delle urne e le decisioni successive. Beppe Grillo, ispirato da Gianroberto Casaleggio, ha conquistato i voti per il Movimento 5 Stelle gridando qua e là per l’Italia, ma è soprattutto in rete che la sua rabbia intrisa di spettacolo ha fatto presa. E il brillante risultato avuto è frutto della potenza multimediale perché i cittadini del villaggio e del mondo, sempre più interattivi sebbene sempre meno linguisticamente raffinati, si documentano anche su internet ed è qui che cercano di sentirsi parte del tutto, rivendicando un ruolo attivo nel mare magnum della vita.

Il lessico e la sintassi del lettore partecipe e del citizen journalist talvolta sono discutibili e chissà se gli illustri personaggi che un tempo elevarono la lingua volgare a lingua letteraria, come Geoffrey Chaucer e Dante Alighieri, oggi avrebbero strizzato un occhio o si sarebbero messi le mani tra i capelli. Trattandosi di uno stile ormai piuttosto radicato, comunque, occorre tenerne conto. E i professionisti e gli aspiranti tali, invece, come si esprimono? Gianpietro Mazzoleni ne La comunicazione politica (Il Mulino, 2012) cita Murray Edelman, secondo il quale il linguaggio politico può essere esortativo, giuridico, amministrativo e della contrattazione. Quello esortativo è usato soprattutto durante le campagne elettorali e in momenti specifici, quando si vuole rendere benaccetto un provvedimento legislativo o si spera che una decisione particolarmente delicata diventi popolare. Quello giuridico è utilizzato principalmente per redigere leggi e regolamenti. Nell’era degli open data, però, il suo impiego non è frequentissimo perché chiunque deve essere in grado di capire e il cittadino non deve percepire tra sé e chi lo governa distanze insuperabili. Il linguaggio amministrativo equivale sostanzialmente al famigerato burocratese e, ancor più del precedente, appare destinato a scomparsa certa nel medio-lungo periodo. Si pensi, per esempio, ai comunicati stampa con i quali i politici medesimi o i loro portavoce annunciano un atto legislativo, un’iniziativa, un progetto. Affinché non siano cestinati, il contenuto deve essere notiziabile e mediale. Fermo restando da parte del giornalista il dovere di verifica e di approfondimento, è pur vero che nell’attuale società della digitalizzazione e della velocità in una eventuale scala delle priorità di solito ha precedenza il testo più chiaro e più scorrevole. Il linguaggio della contrattazione, infine, si colloca fondamentalmente nella sfera privata perché è proprio della negoziazione per la formazione delle liste dei candidati e in generale per il raggiungimento di un punto d’incontro tra posizioni differenti su temi controversi.

Mazzoleni, poi, menziona anche la tipologia proposta da Lorella Cedroni e da Tommaso Dell’Era. I due studiosi suddividono i linguaggi in rivoluzionari, totalitari e della crisi. I primi sono strumento di mutamenti profondi a livello politico e sociale, i secondi influiscono sulla determinazione stessa del cambiamento e i terzi rafforzano in chi legge e in chi ascolta la percezione dei problemi. Il linguaggio in voga nel Movimento 5 Stelle di Grillo e di Casaleggio in quale categoria può rientrare? Ci sono elementi sufficienti per delineare una commistione tra le tre? Ai lettori, democraticamente, l’ardua sentenza.

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