Slang
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Da tempo si cerca di dare una definizione univoca di “linguaggio giovanile”, così come si cerca di comprenderne le dinamiche. In realtà, questo complesso tentativo di relegare in classificazioni precise un fenomeno tanto evanescente e mutevole è destinato a fallire.
In primo luogo non esiste un unico linguaggio tra i giovani, almeno nella parlata quotidiana. In presenza di una globalizzazione sempre più pressante, gli adolescenti si sforzano di rimarcare l’appartenenza alla dimensione sociale in cui vivono e crescono. Talvolta questa forte caratterizzazione locale è influenzata dal dialetto, per cui si assiste spesso a curiose commistioni grammaticalmente discutibili ma assolutamente comprensibili agli appartenenti a una stessa cerchia o territorio. Altre volte si assiste, invece, a un’eccessiva omologazione del linguaggio, che riflette l’analogo fenomeno dell’utilizzo dello stesso tipo di vestiario o della moda dei tatuaggi e dei piercing. È labile il confine tra le scelte dovute a gusti personali e quelle legate al desiderio di sentirsi parte di una comunità più o meno grande.

Inoltre, non necessariamente l’utilizzo di un gergo particolare deve essere considerato come frutto di una scelta consapevole: l’influenza dell’ambiente che si frequenta, della musica che si ascolta, delle mode linguistiche del momento e la loro rapida diffusione tramite i nuovi media, determinano fulminei mutamenti nel modo di esprimersi della collettività e il fenomeno è ancora più vistoso nel mondo giovanile, pronto ad assorbire come una spugna qualsiasi novità.

Ma quali sono le caratteristiche di questa molteplicità di espressioni? Assistiamo spesso al diffondersi di un linguaggio iperbolico, enfatico: le parole mitico, bestiale, allucinante o le espressioni stare da Dio, mi piaci una cifra sono solo alcuni esempi di questa tendenza all’ingigantire sensazioni e stati d’animo.
Un altro elemento da sottolineare è la suffissazione sregolata: così abbiamo i tipi pallosi, le figate e le stronzate pazzesche – in questo caso al suffisso si aggiunge l’enfasi dell’aggettivo –. Altro fenomeno sempre più frequente è l’uso smodato di abbreviazioni. L’esempio emblematico di questa tendenza è la frase Ciao raga, tutto rego? per intendere Ciao ragazzi, tutto a posto?. Ma l’abbreviazione estremizzata ha cominciato a diffondersi nella quotidianità ¬ se tralasciamo gli antichi e aulici esempi medievali – con la diffusione degli sms, i messaggini inviati via telefono: nata per fare economia di parole e di soldi, l’abitudine non si è persa neanche con le tante possibilità attuali di comunicare istantaneamente con le chat, che per di più sono gratuite. Cmq, xkè, dv,qnto sono solo alcuni esempi di quella che viene definita “arabizzazione” del linguaggio per la tendenza all’esclusione delle vocali.
La comunicazione quotidiana abbonda anche di acronimi: tvb è sicuramente il più usato, ma nell’era digitale ne sono stati introdotti molti di origine straniera. Rotfl, se letto di seguito, ha un suono che ricorda un gatto che fa le fusa, ma il suo significato è rolling on the floor laughing, ossia “mi sto rotolando sul pavimento dal ridere”. Un altro acronimo che suggerisce ilarità è lol che nell’era delle faccine potrebbe confondersi con una di esse – una bocca spalancata con le mani ai due lati per amplificare un urlo – mentre invece significa lot of laughs, “un sacco di risate”.

Tutti questi fenomeni legati all’utilizzo del linguaggio non comporterebbe particolari problemi se fossero circoscritti; la realtà dei fatti dimostra però che in modo sempre più pervasivo alcune espressioni e abitudini impoveriscono la nostra lingua, impossessandosi anche degli spazi in cui dovrebbe essere richiesto un maggior rigore, come ad esempio la televisione o la stampa. Per non parlare poi della politica. Sentire da un ministro della Repubblica le parole: “Chi non si laurea entro i ventotto anni è uno sfigato” denota uno scadimento della nostra bella lingua – senza entrare nel merito della considerazione, che si commenta da sola – a tutti i livelli.

In questi casi il problema non è la presenza di uno o più gerghi, ma la loro predominanza sul “bello stile” di memoria dantesca. Appare ovvio che i linguaggi giovanili non sono da reprimere, anche perché sarebbe impossibile, ma sicuramente sono da circoscrivere. Ognuno deve essere in grado di usare un linguaggio appropriato a seconda delle situazioni e degli ambienti in cui interagisce con gli altri. Troppo spesso assistiamo, invece, a una bizzarra commistione di parlate, abbreviazioni, acronimi in contesti inappropriati.
È come al solito troppo semplice trovare dei capri espiatori, ma la sostanza è che la scuola oggi non è più in grado di fissare dei paletti e molti insegnanti zelanti accettano di buon grado l’introduzione di parole non propriamente corrette solo in funzione dell’elevata diffusione delle stesse.

Anche il ruolo dei genitori è fondamentale: se da un lato le parlate gergali sono spesso utilizzate dai giovani per non farsi capire dagli adulti, è anche vero che oggi questi ultimi usano le chat per comunicare con i loro figli. E il modo migliore per farlo è accettare e assorbire il loro modo di parlare e scrivere. Quindi non sono più le regole – grammaticali e non – a stabilire cosa si deve dire e in che modo, bensì la prassi.
È sicuramente vero che la lingua è viva se evolve e la sua evoluzione consiste anche nell’abbandonare le regole obsolete. Rimane però il fatto che, senza voler essere puristi e reazionari, c’è un gran bisogno di chiarirsi le idee su ciò che è dovuto al fluire del tempo e ciò che viene introdotto nella nostra quotidianità con prepotenza e senza regole.
Forse è proprio questo un altro aspetto dell’essere giovani e in qualche modo ribelli per antonomasia: il tentativo di rovesciare gli schemi preordinati, siano essi sociali, economici o linguistici, accomuna tutta la storia dell’umanità, ma ogni volta che questo tentativo è andato a buon fine dalle ceneri del passato sono nate nuove regole.
Ciò che differenzia però il mondo d’oggi da quello di una volta è la grande velocità di cambiamento e la mancanza di un vero e proprio scarto generazionale. Gli adulti non sono più rigidi e impettiti nel loro ruolo di educatori; oggi scendono a patti con i più giovani e perdono potere. Altre volte giocano a sentirsi più giovani e ridicolizzano la loro figura mentre tentano di rivivere una giovinezza che non può tornare. In entrambi i casi si confondono regole, ruoli e modi parlare.

Ancora una volta la lingua è specchio dell’esistenza e della società, nel bene e nel male. Solo che oggi non è più l’Accademia della Crusca a decidere davvero cosa sia lecito usare nella comunicazione verbale. E se la parola “gergo” deriva dal francese antico jergon, il cui significato è “cinguettio, lingua degli uccelli”, qual è il suo legame con i telegrafici messaggi pubblicati su twitter?

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