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La storia della Vitis Silvestris differisce da quella della viticultura tanto da perdersi nella notte dei tempi e da risalire, nell’area mediterranea e del Caucaso, Armenia, Turkestan e Georgia, attorno ai 60 milioni di anni fa, mentre nella sola Europa pare sia iniziata a crescere a partire dal Miocene.

In realtà la vite era diffusa su tutto il globo già in epoche ancor più remote e coincidenti alla comparsa dei primi mammiferi, in zone quali l’America settentrionale, terra della Vitis Labrusca, quindi in Messico ed i Caraibi ed anche in Asia orientale; la Vitis primordiale affrontò nel corso dei millenni le avversità con la stessa ostinazione con cui selvaggiamente si inerpicava sui grandi alberi preistorici, ma per quanto coriacea e selvaggia la Vitis Silvestris dovette cedere alla moderna glaciazione, iniziata 40 milioni di anni fa con la propagazione della calotta glaciale antartica, tanto che la sua estensione ne fu ridotta alle sole aree del bacino mediterraneo e dell’Anatolia, per poi  giungere sino all’era della comparsa dell’uomo.

Effettivamente sono state rinvenute piante vitacee fossili risalenti al Cretaceo e, nel sito Sézannes in Francia, scoperte impronte di Vitis Sezannensis in strati di tufo del Paleocene, mentre i vinaccioli riesumati nei pressi di un sito paleolitico non lontano da Nizza sarebbero databili a 400 mila anni e dimostrerebbero che il primate Homo Heidelbergensis raccogliesse e si cibasse di uva selvatica. Ma, delle 60 specie scampate alla ultima glaciazione, è soltanto della Vitis Vinifera appunto che seguiremo le tracce, lungo un percorso che si snoda in bilico tra eventi biblici ed il mito degli Argonauti in area pontica, appunto tra il Caucaso, il Mar Caspio ed il Mar Nero, snodandosi dal Monte Ararat, alla Mesopotamia fino all’Egitto.

Nonostante le prime testimonianze fossili sulla comparsa della Vitis Vinifera, termine coniato da Linneo nel 1753,   risalgano a un milione di anni fa quei reperti riesumati nel travertino di San Vivaldo in Toscana, a Fiano Romano ed Ascoli Piceno che, d’altronde, attestano la natura indigena della vite in Italia, il carattere domestico della pianta, così come la conosciamo oggi, affiora solltanto tra il 10 mila e il 6000 a.C.; furono infatti gli uomini del Neolitico a divincolarla letteralmente dagli alberi su cui era fortemente avvinghiata, potandola e rendendola idonea alla vinificazione quando, anche per loro, avvenne una metamorfosi: il graduale passaggio dal nomadismo alla vita stanziale.

La vite dunque divenne coetanea dell’uomo nell’agricoltura, così come al vino spettò il ruolo di fedele compagno di viaggio della società primordiale attraverso la storia, la letteratura e il progresso, una vera e propria onnipresente testimone dell’umana civiltà.

La prima tappa del viaggio della Vitis Vinifera va dal  7000 al 2500 a.C., periodo in cui si scinde in due sottospecie: la Vitis Vinifera Silvestris, termine coniato dal Karl Christian Gmelin nel 1805, che manterrà la sua natura selvatica e spontanea, come tutte le viti selvatiche dell’Europa centro-meridionale, dell’Africa settentrionale e dell’Asia occidentale, e la Vitis Vinifera Sativa, ossia la vite coltivata, classificata in viti orientali, suddivise in caspiche e antasiatiche, e mediterranee, ripartite a loro volta in pontiche ed occidentali.

E’ agli inizi di questo periodo che risale la scoperta del vino, o meglio, che accidentalmente il succo d’uva, a causa dell’alta temperatura, compirà la fermentazione in qualche vaso di terracotta o magari in otri di pelle di capra o cammello, per quanto il più antico recipiente conosciuto abbia 7000 anni e fu ritrovato sui monti Zagros, in Iran.

Nasce il vino dunque.

E la parola vino nascerà dal vocabolo pontico “voino”, divenuto poi “oino” per i Greci e “vinum” per i Romani; una parola che è citata non solo nell’Antico Testamento ma addirittura nella prima opera letteraria, a caratteri cuneiformi, scritta dall’uomo: l’Epopea di Gilgamesh di Uruk, oggi Warka in Iraq, risalente al 3° millennio a. C.; l’opera non solo rende esplicito quanto il vino sia davvero presente nella civilizzazione dalla fondazione di Sumer alla scoperta della ruota all’invenzione della letteratura, ma sostiene anche le teorie che vorrebbero la vite fosse già coltivata in Età Prediluviana: nel racconto viene infatti citato Utnapishtim, detentore del segreto dell’immortalità scampato al Diluvio Universale, insomma il Noè che la Bibbia vuole sia stato il primo a scoprire il metodo per produrre vino  e che, arenatosi sul monte Ararat, piantò una vigna, bevendone il vino ed ubriacandosi, come riportato nella Genesi.

La vite fece parte della vita dell’uomo comune come il vino della vita religiosa: i Sumeri lo associavano all’immortalità e alla sessualità, venendo utilizzato dai sacerdoti quale simbolo sacrificale nelle ziggurat assieme al pane ancor prima dell’avvento dello Zoroastrismo e della Cristianità, per ingraziarsi i favori degli dei.

Intanto altre tracce vengono strappate al passato: il frantoio di Damasco e le brocche decorate con grappoli d’uva in Georgia del 6000 a.C. e i vinaccioli trovati a Gerico risalenti al 3000 a.C.

Nel II millennio gli Assiro-Babilonesi succedono ai sumeri anche grazie alla fusione culturale coi popoli di Accadia; nel Codice di Hammurabi preziose informazioni rivelano che i vigneti erano appannaggio della classe sacerdotale, che v’erano barche speciali adibite al trasporto dei recipienti di vino prodotto dai Fenici. E poi ancora tavolette d’argilla, bassorilievi e pitture funerarie descrivono le pratiche della viticultura e della vendemmia di questa epoca. Durante il periodo babilonese il vino rafforzò il suo ruolo religioso diventando addirittura l’elemento trascendentale per mettersi in contatto con la divinità attraverso la commistione di alcol, musica e danza.

Intanto Ninive, nelle cui vicinanze si presume sorgessero i Giardini Pensili di Babilonia voluti dalla regina Semiramide, era già rinomata per i suoi vini. Così come diritto esclusivo della nobiltà babilonese anche nell’Egitto del 4000 a.C. il vino era bevuto solo dai regnanti e dai sacerdoti, spillato nelle coppe grazie ai commerci esclusivi coi Fenici, ostacolati verso altri sbocchi commerciali dalle potenze navali cretesi e minoiche, cui si dovrà l’espansione della vite lungo le coste del Mare Nostrum e di cui si parlerà dopo l’invasione dei Popoli del Mare; la profonda conoscenza dell’agricoltura da parte del popolo delle piramidi e la ricchissima rete idrica sempre alimentata dal Nilo fecero attecchire presto la viticultura in quelle terre. Anche in Egitto il vino ebbe un ruolo predominante nella vita religiosa, soprattutto per il rito funebre: a Tebe un affresco tombale mostra tutte le fasi dalla vendemmia al trasporto fluviale; nello stesso corredo funebre dei faraoni, anfore di vino ne accompagnavano il sarcofago nell’ultimo viaggio verso l’aldilà. Dai Testi delle Piramidi e dai geroglifici, di cui il primo carattere a essere tradotto dalla stele di Rosetta nel 1822 da Jean-François Champollion, guarda caso, è quello che indicava il termine vino, si evince l’idea del paradiso egizio: un interminabile vigneto carico di grappoli dolci e profumati ove ogni vino scorreva.

E’ all’ingegno di questo popolo che dobbiamo, inoltre, un primo rudimentale sistema di classificazione e alcune innovazioni in vigna: sulle anfore a collo stretto munite di due manici, deputate alla conservazione del vino, ermeticamente chiuse con tappi d’argilla, veniva apposto un sigillo con la relativa annata, mentre altre iscrizioni ne citavano tipologia, provenienza e produttore; si deve alla sapiente mano del viticultore egizio il perfezionamento della potatura, arte che verrà tramandata in seguito ai Greci assieme a quella della vinificazione, la quale fa perdere alla vite la sua caratteristica  di vegetale strisciante, ergendosi anche grazie all’invenzione dell’allevamento a pergola. Al termine della prima tappa del viaggio della vite, durata 4500 anni circa, sono stati fatti ingenti progressi a livello agricolo, vitivinicolo e sociale.

Forse il vino, così come lo conosciamo oggi, mescolato alle radici e alle spezie più disparate, miele e persino acqua di mare non ha ancora raggiunto la sua vera connotazione, a causa del suo alto tenore alcolico, per il suo sapore così aspro e selvatico piuttosto che per i costumi del tempo, ma le abitudini, in parte tramandate, sono destinate a cambiare e la civiltà e il vino, malgrado questa lunga tappa attraverso il primo centro millenario di domesticazione della vite, ne dovranno fare ancora di strada.

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