"Sono quella che porta i fiori verso la sua tomba" di Hala Alabdalla
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Roma (ITALIA)

Non poteva aprirsi con un migliore tempismo la prima edizione di CineMondo, il festival dedicato ai film documentari del Medio Oriente che si è tenuto a Roma e che ha ospitato pellicole provenienti da Siria, Libano, Palestina e Israele. Non perché questi Paesi, eccetto la Siria, siano stati attraversati dagli sconvolgimenti che stanno interessando molti Paesi arabi, ma perché finalmente si è scelto di aprire una porta su un mondo sconosciuto a moltissima parte del pubblico italiano.

Al contrario di ciò che si pensa solitamente, infatti, la produzione cinematografica o, come in questo caso, documentaristica, nei Paesi arabi è fertile e molto interessante. Se si escludono i prodotti più commerciali, che invadono soprattutto il mercato egiziano, e le serie per la tv che abbondano in quasi tutti i Paesi, restano comunque molti prodotti di qualità che potrebbero aiutare a conoscere e capire una realtà con cui spesso si fatica ad entrare in contatto. Il cinema potrebbe essere un valido strumento per comprendere quali sono i problemi che affliggono le società arabe, a volte peculiari di quell’universo, ma in altri casi globali e assolutamente condivisibili, e tale comprensione eviterebbe lo stupore provocato in Occidente dai cambiamenti epocali che hanno attraversato la Tunisia e l’Egitto e che sono ancora in atto in Libia, Siria, Bahrein e Yemen.

I documentari presentati dall’Accademia di Francia a Roma, in collaborazione con il Festival Internazionale del Documentario di Marsiglia, hanno posto l’accento su tematiche particolarmente sensibili di quest’area, attraversata da decenni di conflitti che, in alcuni casi, hanno portato le persone a perdere la propria identità, oppure ad indentificarsi con il conflitto stesso. Il filo rosso che sembra legare i documentari presentati è proprio la spasmodica e dolorosa ricerca di se stessi, in un’area in cui convivono, e da sempre hanno convissuto, etnie, lingue e religioni. Tale mescolanza è spesso sfociata in guerra, ma solo a causa delle strumentalizzazioni e della stupidità di pochi, coinvolgendo intere popolazioni che non vedevano nelle differenze un ostacolo alla convivenza pacifica.

Dopo un omaggio al regista siriano Omar Amiralay, recentemente scomparso, con cui si è aperto il festival, la sua “allieva”, Hala Alabdalla, ha presentato quella che è per lei quasi una summa di tutti i film che avrebbe voluto girare. In “Sono quella che porta i fiori verso la sua tomba” la regista, che vive in Francia, è voluta tornare nel suo Paese per ritrovare e raccontare la propria storia attraverso i luoghi dell’infanzia e le storie di amici, che sono anche le sue, in un viaggio molto intimo in cui però tanti potrebbero riconoscersi.

In “Waiting for Abou Zayd”, Mohammad Ali Atassi affronta un tema troppo spesso taciuto, ma la cui conoscenza potrebbe forse eliminare alcuni luoghi comuni. Nasr Hamed Abou Zayd è un teologo musulmano egiziano accusato di apostasia a causa delle sue teorie e della lettura storica che fa del Corano, costretto per questo a rinunciare alla sua carriera universitaria, ad annullare il suo matrimonio, a lasciare il suo Paese. Il regista lo ha seguito per sei anni durante gli incontri con il pubblico, le interviste con i media e anche nella sua vita privata, restituendoci due figure (non solo Abou Zayd, ma anche la moglie) estremamente coraggiose e impegnate nella strenua lotta per la difesa delle proprie idee.

Per lo spettatore occidentale è importante capire che il mondo musulmano non è un blocco unitario, ma che al suo interno c’è spazio per molteplici correnti di pensiero, alcune improntate alla tradizione, altre votate al modernismo, altre ancora basate sulla violenza. La conoscenza di questo variegato universo eviterebbe forse di ritenere che in Egitto l’alternativa a Mubarak siano solo i Fratelli Musulmani (come hanno sostenuto in molti recentemente) e che il Paese corra il rischio di una deriva religiosa, così come potremmo smettere di sentire la solita, inutile, stupida domanda: “Ma l’Islam è compatibile con la democrazia?”.

Particolarmente interessanti e toccanti i documentari dedicati alla vita in Palestina, dove i gesti della quotidiana più banale si mescolano con il conflitto perenne, un luogo dove ciò che sarebbe impensabile altrove è diventato la normalità. In “Il tetto” il regista Kamal AlJafari tenta di ripercorrere la storia della sua famiglia che, non essendo riuscita a fuggire, è dovuta restare in Palestina, diventata poi Israele, prendendo possesso di una casa abbandonata da altri palestinesi. Il tetto della casa, luogo di vitale importanza per gli arabi, utilizzato sia per necessità che per svago, diventa così simbolo della mancanza di radici perché su quel tetto nessuno ha ancora osato innalzare un altro piano per far crescere quella casa di cui, in qualche modo, la famiglia non si sente ancora del tutto proprietaria. Intanto, accanto ai muri distrutti delle case palestinesi, sorge un altro muro, ben più solito e gigantesco, che apre ferite profonde non solo sul terreno e lungo le case, ma anche nell’animo delle persone, per cui diventa una insormontabile barriera sia fisica che mentale.

Per Raed Andoni, palestinese della Cisgiordania e regista di “Fix me”, il conflitto è intrinsecamente legato all’inconscio, al punto da trasformarsi in un mal di testa che non gli permette di lavorare e di vivere normalmente. Raed decide di iniziare una terapia e di riprenderne le fasi, avviando così un viaggio fra volti, ricordi e testimonianze del periodo precedente il suo arresto da parte della polizia israeliana quando era ancora un ragazzo, che segna una sorta di spartiacque dei suoi ricordi: quelli precedenti a questa esperienza, infatti, sembrano perduti. Per questo Raed mette in guardia il giovane nipote, entusiasta attivista anti israeliano che si affaccia alla politica, dal rimanere prigioniero di questo sistema, ricordandogli che la vita, anche quella di un palestinese, non può essere solo la lotta contro il nemico.
Dall’altra parte ci sono i carnefici. Come quelli delle milizie libanesi cristiane responsabili del massacro di Sabra e Chatila, sei dei quali vengono intervistati da Monika Borgmann, Lokman Slim e Hermann Theissen in “Massaker”. Le loro testimonianze sconvolgono non tanto per i pur terribili orrori perpetrati, quanto per il distacco e la mancanza di coscienza con cui ne parlano. Solo uno di loro mostra ritrosia a ricordare, e sembra quasi vergognarsi più che pentirsi, mentre gli altri è come se parlassero in terza persona e non fossero stati loro a massacrare dei civili inermi. In quel caso cosa spiega tanto odio e violenza? La milizia doveva vendicare l’assassinio del proprio capo e come rappresaglia fu effettuata una sorta di pulizia etnica perpetrata contro i palestinesi rifugiatisi in Libano, il tutto con il supporto logistico del pur odiato nemico israeliano. I palestinesi però quasi non venivano considerati esseri umani e sulla loro vita o morte non c’era da porsi questioni morali.

Così sembra pensarla anche il protagonista di “Z32” del regista israeliano Avi Mograbi, un soldato israeliano che partecipò ad una rappresaglia in cui vennero uccisi due poliziotti palestinesi che non avevano nessuna colpa. Anche in questo caso, mentre il soldato confessa ciò che ha fatto alla fidanzata, sconvolta dalle sue rivelazioni, non mostra nessun sentimento di fronte alle sue azioni, al punto che confessa di non essere tormentato da ciò che ha fatto nemmeno in sogno. Dice però chiaramente che in quel periodo, e in quella squadra, le azioni si effettuavano come sotto l’effetto di droghe: gli addestramenti al limite della sopportazione fisica e morale, il passaggio costante dalle pochissime ore di sonno all’azione di guerra, la certezza che fuori dal suo Paese sarebbe processato per crimini di guerra. Il ragazzo cerca il perdono della fidanzata, ma non sembra preoccuparsi di dover perdonare se stesso: non mostra nessun rimorso per ciò che ha fatto, ammette di essersi quasi divertito durante quelle azioni, e non si capisce l’empatia che il registra sembra provare nei suoi confronti.
È impossibile accettare il fatto che criminali del genere non abbiano potuto trovare un minimo spazio di lucidità nella loro mente per rendersi conto di ciò che facevano e che ancora oggi cerchino rifugio e giustificazione nella loro giovane età, nell’entusiasmo e nella disperazione di quegli anni, nel clima di conflitto in cui hanno sempre vissuto. Davvero non resta spazio per l’umanità?

Per trovare una risposta basta guardare a ciò che succede ancora oggi: in un panorama dove la storia sembra non insegnare mai nulla, dove il tempo che passa fa dimenticare le atrocità di guerre antiche, dove gli interessi economici sono più forti e pressanti di qualsiasi sentimento di umanità, nel nostro Mediterraneo la stupidità umana ritiene che la soluzione a tutto siano ancora una volta le armi.

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