Tasse e immigrati
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Qualche mese fa un cittadino immigrato di origine marocchina residente in Provincia di Bologna, in regola con l’infinitamente burocratica e stressante procedura relativa all’ottenimento e al mantenimento del permesso di soggiorno, si era rivolto presso l’ufficio dei servizi sociali del Comune di competenza per domandare la possibilità di fruizione di un sussidio provvisorio in grado di colmare una situazione ai limiti dell’indigenza più assoluta: era stato licenziato da una cooperativa del settore edile che aveva deciso di non avvalersi più del suo operato stante “la mancanza di opportunità produttive” ed assunto a tempo determinato come “socio lavoratore” non poteva avvalersi di alcuna tutela e nessun ammortizzatore sociale.

La particolare forma antigiuridica del suo contratto di lavoro non concepiva difatti alcun tipo di retribuzione temporanea nel caso di brusca interruzione del rapporto di collaborazione, eventualmente la restituzione della quota sociale sottoscritta in partenza; una situazione drammaticamente complessa acuita dal rischio della perdita di quello status di regolarità che gli aveva sinora consentito di vivere in una soglia di normalità economica ed esistenza sociale, attraverso quel salario che garantiva il sostentamento di una piccola abitazione in affitto, della consorte disoccupata e in dolce attesa del secondogenito. Un incubo che attanaglia attualmente diversi cittadini stranieri impiegati nelle più svariate mansioni di utilità dello Stivale, basti pensare alla protesta inscenata lo scorso anno dai lavoratori di una cooperativa di servizi all’aeroporto milanese di Malpensa, tutti stranieri e congedati nella medesima, ingiustificata modalità1 che accomuna sempre più spesso un diffuso e ricattatorio modus facendi padronale nei confronti dei migranti, una povertà di diritti sfruttata in funzione di un’obbligatorietà di doveri pena l’esclusione sociale.

Il rischio, ora, era quello di ritrovarsi improvvisamente spoglio di beni e averi faticosamente conquistati dopo lunghi e tormentati sacrifici e di vedersi etichettato un reato mai commesso ma giuridicamente neo introdotto dall’esecutivo lo scorso anno, ossia il soggiorno o permanenza illegale. Eppure, come molti cittadini italiani alle prese con le difficoltà occupazionali ed economiche che questo delicato periodo sta portando con sé, questo giovanotto intraprendente le stava provando tutte per uscire dalla coltre di anonima emarginazione; candidature, colloqui, viaggi speranzosi andati a vuoto…Caratteristiche comuni di chi vive sulla propria pelle il dramma della disoccupazione, accentuate da quella ulteriore precarietà costituita dal lasso di tempo supplettivo (sei mesi) che, una volta scaduto il “pezzo di carta”, la normativa concede agli immigrati in attesa di nuova occupazione. Al termine del quale si potrebbe rientrare in uno di quei presupposti applicativi che prevedono il rimpatrio nel Paese di origine, un’ammenda oscillante tra i cinque ed i diecimila euro oppure l’arresto ed il trasferimento in uno dei Centri di identificazione ed espulsione (CIE, gli ex CPT) sparsi sul territorio italiano.

Un paradosso potenzialmente realistico e concretizzabile dal momento che diventerebbe inutile presentare la documentazione inerente al rinnovo in assenza dei requisiti richiesti perché si andrebbe incontro alla certezza del diniego da parte della Questura.
A questo punto si aprirebbero per questa persona, rifiutata e perseguita ingiustamente, due possibili strade risolutive, portatrici entrambe di risvolti negativi: il rientro volontario in Patria oppure il fiorente mercato del lavoro nero nostrano, magari in un vitigno del Nord piuttosto che in una campagna del Sud.

Nel primo caso si tratterebbe di una scommessa persa, il viaggio a ritroso verso i luoghi natii rappresenterebbe un reinsediamento che darebbe luogo ad una pluralità di giudizi negativi carico di frustrazioni, senza dimenticare che la condizione di povertà ed emarginazione di provenienza non aiuterebbe il normale processo di ricostruzione vitale e di ambientazione in un tessuto sociale modificatosi negli anni.
Ma anche la decisione di rimanere in Italia potrebbe comportare una sorte misera, nascosta tra le pieghe di un’esistenza infelice, ancor più sfruttata e degradata di prima, con l’obbligo di vivere al riparo dalle insidie legali e con la paura di doversi necessariamente affidare ad un’”amministratore unico” per quanto concerne una baracca uso alloggio, una magra retribuzione e il silenzioso assenso in cambio di un lavoro spezzaschiena e la garanzia non scritta della copertura da eventuali impicci. La rivolta di Rosarno, conseguente al clima di scherno e umiliazione cui molti immigrati africani sono stati sottoposti ad inizio anno e scaturito proprio a causa dell’estremizzazione di quel “codice di sopravvivenza”, sembra sia già stata dimenticata dalla consuetudinaria memoria di ridotta durata prevalente nel nostro Paese.

A livello istituzionale, qualcuno ha rotto il muro omertoso dell’indifferenza organizzando una raccolta firme per istituire un permesso per ricerca lavoro della durata di due anni: è il caso della proposta lanciata dal Consiglio dei cittadini stranieri e apolidi della Provincia di Bologna, organo elettivo costituitosi nel 2007 che lavora nell’ambito della promozione dei diritti dei cittadini immigrati. Un tentativo di reimmissione sociale dei tanti Muhammad, Fatima, Ousmane, Babacar e Entela che popolano e compartecipano della ricchezza culturale ed economica italica e che diversamente scomparirebbero dalla cittadinanza attiva, come fantasmi in cerca di fortuna sulla strada sterrata che conduce verso un’involontario destino di sofferenza imprigionata.

1 http://www3.varesenews.it/gallarate_malpensa/articolo.php?id=162765

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