Parole legate al lavoro
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Dal Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana curato da Ottorino Pianigiani:

disoccupare: comp. della partic. DIS, che indica allontanamento, cessazione, e OCCUPARE. – Trarre d’occupazione, dalle faccende; lasciar libero.

Deriv. Disoccupato: che non è occupato; ma parlando di persona dicesi, più che altro, per Sfaccendato, Scioperato; Disoccupazione.

È curiosa l’accezione positivistica e quasi poetica dell’espressione lasciar libero. Rimanda alla disponibilità di tempo da godere privatamente dopo aver assolto al proprio dovere.
In netto contrasto sembra invece essere la traslazione di significato quando colui che è privo di occupazione diventa uno sfaccendato.
Questa definizione sembra anacronistica anche per l’anno in cui venne pubblicato il Vocabolario. Era il 1907 e l’Italia era insanguinata dalle feroci repressioni delle lotte operaie, soprattutto al Sud, devastato dalle miopi scelte giolittiane incuranti delle differenze sociali ed economiche che dividevano in due l’Italia.
Allora, come oggi, si lottava per il lavoro, si emigrava, si cercava di conquistare diritti fino ad allora non riconosciuti. Il termine disoccupato, se utilizzato nell’accezione negativa di sfaccendato, scioperato, insinua l’indicazione di una colpa, ossia l’essere non occupato per scelta, come un parassita della società che passa le giornate a gozzovigliare.
Se tale significato fosse ancora oggi quello predominante, il nostro Paese non sarebbe stracolmo di vittime di un sistema sbagliato, bensì di oziosi. È chiaro che è fortemente presente anche questa categoria di persone, ma è preferibile indicare costoro con termini che non diano adito a dubbi, come fannullone per esempio, onde evitare di banalizzare il termine disoccupato, che rimane così associato a una condizione, senza valutazioni sul merito.

Sempre dal Pianigiani:

precario: lat. PRECARIUS da PREX preghiera. Propr. ottenuto per preghiera.
Che si esercita con permissione, per tolleranza altrui; quindi che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente; per estens. che ha poca durata, non stabile.
Deriv. Precariamente; Precarietà.

Con una punta di malizia e un po’ di ironia si potrebbe dire che il Pianigiani fosse un profeta: oggi bisogna pregare per avere un lavoro, seppur non stabile. Vera anche la seconda accezione, ossia che non dura sempre ma quanto vuole il concedente, in quanto la durata è temporanea e il precario non ha potere contrattuale, quindi deve sottostare alle regole del concedente.
È curioso notare come allora il termine precario non venisse associato anche alla parola lavoro. Il Sabatini Coletti, dizionario sicuramente più aggiornato, riporta tra le diverse accezioni la seguente:
“In ambito lavorativo, provvisorio e privo di garanzie”. Il linguaggio segue suo malgrado l’evoluzione – o involuzione – della società, e così dalle preghiere si è passati alla brutale realtà.

Altro termine interessante è questo:

flessibile: lat. FLEXIBILEM da FLEXUS p.p. di FLECTERE piegare.
Che si lascia piegare più o meno facilmente fino a un certo punto senza rompersi.

Da questo deriva la parola flessibilità che il Sabatini Coletti definisce come

1. Qualità di ciò che è flessibile, anche in senso fig.
2. Nel linguaggio sindacale, abolizione o riduzione dei vincoli che regolano il rapporto di lavoro tra azienda e dipendente, rendendone più facile l’interruzione, la mobilità ecc.

Si è passati anche in questo caso da un’accezione positiva in cui si indica qualcosa che si può piegare senza rompersi, a una negativa. Il dizionario infatti non definisce la flessibilità come strumento utile a vivacizzare il mercato del lavoro, bensì ne evidenzia l’utilizzo nel linguaggio sindacale, in cui assume una connotazione negativa.
I sindacati si sono appropriati di un termine favorendo una traslazione di significato oppure la negatività sociale del fenomeno è così evidente da sottomettere una parola innocente al rogo del suo significato originario?
Ancora una volta il linguaggio rispecchia il malessere e le turbolenze di una società allo sbando.
Abbandonando l’ufficialità della terminologia, nel linguaggio comune sono stati spesso utilizzati epiteti poco lusinghieri per definire una generazione: bamboccione è uno di questi.

Il sito web Sapere.it, curato da Garzanti, riporta la seguente definizione:

“La derivazione di questo parola è immediata: bamboccio, che è il vezzeggiativo di “bambo” infante, bambino vivace un po’ sovrappeso, pacioccone; ma anche bambolotto, fatto di pezza, dalle sembianze di bambino. Da qui l’accrescitivo bamboccione, che ha il singolare significato di giovane uomo dal comportamento e dai modi infantili, viziato, incapace di badare a se stesso. Tipico del bamboccione è non volersi rendere autonomo, nonostante ne abbia tutte le possibilità, non desiderare di allontanarsi dalla famiglia d’origine, anzi farsi proprio mantenere dai genitori. La figura del bamboccione dunque è proprio l’incarnazione di un bambolotto di pezza che da solo non sta in piedi”

Chi l’ha utilizzato per definire coloro che, seppure adulti, continuano a vivere alle spalle dei genitori, si è limitato a sottolineare un dato reale, senza condurre però una doverosa indagine sociologica. Possono un lavoratore precario o un disoccupato permettersi un contratto d’affitto o sperare di ottenere un mutuo per l’acquisto di una casa? La risposta è sicuramente negativa. Ne consegue che, in questo caso, il termine bamboccione è stato usato in modo improprio.

Altro termine poco felice è choosy, utilizzato per definire i giovani disoccupati che non hanno un lavoro perché “schizzinosi”. Anche questo aggettivo è sintomatico di una distanza abissale da una certa realtà. I disoccupati italiani si trovano in tale condizione perché non accettano determinati lavori? Difficile dimostrare questa tesi, soprattutto quando ci si ritrova a dover discutere con potenziali datori di lavoro che sfruttano ampiamente la posizione dominante per offrire lavoro in nero o sottopagato, per imporre a chi ha un disperato bisogno di lavorare l’apertura di una partita iva, camuffando, in tal modo, un impiego da dipendente senza godere dei relativi diritti. Non sempre accade questo, ma è un fenomeno molto frequente.
E occorre fare anche un’altra considerazione: se una persona si è preparata, con lo studio o con la pratica o con entrambi, a svolgere un determinato mestiere, perché gli deve essere impedito di farlo? In questo modo si frantumano i sogni e i desideri degli individui, costretti a ripiegare su lavori poco gratificanti e per nulla affini alle proprie inclinazioni. Si sono create intere generazioni di infelici che non riescono a dare un senso alla propria esistenza né a contribuire alla produzione di ricchezza. Che non è, beninteso, pura ricchezza monetaria ma qualcosa di molto più profondo e importante.
Si è cercato di mostrare quanto il linguaggio sia in linea con tutto ciò che accade a livello sociale;  probabilmente, quando pronunceremo nuovamente più parole positive sarà perché esse avranno finalmente ricominciato a riflettere una società in crescita.

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