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L’Assemblea delle Nazioni Unite, nel dicembre del 2006, ha approvato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità.
Il primo articolo esordisce con l’obiettivo di “promuovere proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone disabili, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”.
La convenzione, ratificata dal Parlamento Italiano, diviene legge dello Stato il 24 febbraio 2009.
Quanta strada è trascorsa da quando molte società consideravano la disabilità “incompatibile con la vita”, oppure la relegavamo a spazi chiusi, a fenomeno da baraccone motivo di divertimento e morbosa curiosità, o ad essere oggetto di atteggiamenti di pietà o, ancora, a riporla esclusivamente nella sfera della malattia.

Oggi le politiche europee individuano strategie pluriennali per rafforzare la partecipazione delle persone con disabilità alla vita e all’organizzazione della società, perché il tema dell’inclusione è considerato fra le aree di intervento prioritarie che gli Stati Membri devono attuare da qui al 2020.
Nelle politiche comunitarie sono, infatti, considerati nodali (fondati proprio sulla convenzione delle Nazioni Unite e su disposizioni internazionali per la sua attuazione) temi quali:

  • l’accessibilità ossia l’accesso alla fruizione di beni e servizi; 
  • la partecipazione per il pieno e completo esercizio del proprio diritti di cittadinanza;
  • l’uguaglianza per la lotta contro le discriminazioni; 
  • l’occupazione per consentire un aumento del mercato del lavoro e migliorarne la qualità;
  • l’istruzione e la formazione per un sistema scolastico veramente fruibile; 
  • la protezione sociale per compensare la disparità di reddito; 
  • la salute per un equo accesso ai servizi sanitari;
  • l’azione esterna ossia i diritti delle persone disabili a livello internazionale;
  • l’attuazione per la messa in atto di strategie comuni delle istituzioni dell’Unione Europea e degli Stati membri.

Ma quali sono, concretamente, oltre i proclami istituzionali, gli interventi che, nonostante i tagli alla spesa pubblica imposti spesso dal paravento della spending review, riescono ancora concretamente ad intervenire sulla qualità della vita delle persone con disabilità e/o dei loro familiari e assistenti?
Oltre i cosiddetti “Piani personalizzati” e le progettualità “Ritornare a casa” che favoriscono un’assistenza non ospedalizzata, ci sono anche delle iniziative particolarmente innovative rivolte alla introduzione di interventi ad altro contenuto tecnologico, che favoriscono la permanenza nel proprio domicilio per migliorare l’autonomia nello svolgimento delle attività domestiche.

Si parla in questo caso di “domotica” per la realizzazione di sistemi di automazione domestica con un alto contenuto di innovazione per supportare le persone con disabilità con ausilii, attrezzature, elettrodomestici in grado di consentire in autonomia la fruibilità della casa, svolgere attività di studio e lavoro nella propria abitazione con arredi ed attrezzature funzionali alla specifica disabilità.
Attraverso alcuni finanziamenti europei (dei quali si fanno “portavoce” le amministrazioni locali) è possibile installare centraline che automatizzano l’apertura e la chiusura delle tapparelle, delle finestre e dei portoncini di ingresso, che rendono agevole l’accensione delle luci, mettono al riparo da eventuali fughe di gas e acqua, consentono di controllare l’accesso con circuiti di videosorveglianza, rendono mobili i ripiani delle mensole, permettono di cucinare in sicurezza etc.
Sicuramente un supporto importante, che migliora le condizioni di vita all’interno delle proprie abitazioni con l’accesso a tecnologie per il singolo cittadino troppo onerose se non ci fosse la sovvenzione pubblica.
Ma, al di là della banca dati dei bandi di finanziamento, come si può valutare la sensibilità di una società al tema dell’inclusione? Alcune Amministrazioni hanno deciso di rimarcare il proprio profilo etico attraverso strumenti come il cosiddetto “bilancio sociale” che, se correttamente compilato, rappresenta (o dovrebbe rappresentare) una “certificazione” e un legame con la comunità che si amministra e il territorio di riferimento.
Il Bilancio Sociale, infatti, a differenza di quello tradizionale, evidenzia un dato fondamentale: quello quello qualità della vita rispetto al mero dato economico del Prodotto Interno Lordo, e pone l’accento sul concetto di responsabilità piuttosto che sul pareggio delle entrate e delle uscite.
Attraverso il bilancio sociale, ad esempio, non ci si può limitare alla mera enunciazione di un elenco di investimenti o servizi come risultato di amministrazione, ma è indispensabile indicare il numero di persone che utilizzano le struttura e i servizi accompagnandolo, possibilmente, dal loro grado di soddisfazione.
Inoltre, nel bilancio sociale devono essere monitorati e tenuti in considerazione i diritti dei soggetti coinvolti, gli effetti sull’ambiente e della comunità circostante in un’ottica di sostenibilità e condivisione.
Attraverso il bilancio sociale vengono, infatti, resi noti i risultati dell’attività amministrativo-gestionale per confrontarli con gli obiettivi programmatici, in modo da verificare se sono stati conseguiti o se occorre apportare dei correttivi in corso d’opera.

Un uso corretto e trasparente di queste pratiche partecipative fanno del bilancio sociale un mezzo di dialogo attivo e di confronto tra Amministrazione e cittadinanza.
Cionondimeno, dalla lettura di alcuni bilanci sociali nella sezione riguardante la voce genericamente denominata “politiche sociali” è possibile ricavare dati in merito alle risorse ad esse dedicate che non sono affatto confortanti.
Dalla media degli ultimi bilanci disponibili emerge, ad esempio, che in Italia per sostenere gli interventi sociali la spesa media pro-capite nelle regioni centro-settentrionali è di 146 euro (con eccellenze di 215 euro nel Friuli Venezia Giulia fino ai 294 euro della provincia di Trento).
Questa cifra scende a 134 euro per le regioni a statuto ordinario e a 69 euro per il Mezzogiorno che, come spesso accade anche per altre tematiche, evidenzia un divario enorme rispetto al resto del Paese.
I principali destinatari di queste risorse sono famiglie e minori per il 39,9%, mentre alle persone con disabilità è riservato il 21,6% e agli anziani 20,3%. Insieme, queste tre voci assorbono l’81,8% delle risorse impiegate.

Ma fuori casa, nella città, quali sono le condizioni di mobilità e di accessibilità per una vera integrazione nella vita viva della città?

La Commissione Europea ha avviato diverse procedure di infrazione, con relativa messa in mora, perché l’Italia non rispetta i diritti dei passeggeri disabili: assenza di spazi nei bus, di fermate predefinite, mancanza di assistenza, difficoltà degli operatori navali ed aerei a garantire l’operatività del servizio passeggeri…sono solo alcune delle carenze con le quali devono combattere le persone con disabilità nel nostro Paese.
Ma anche senza immaginare “grandi spostamenti”, è sufficiente soffermarsi a guardare nel piccolo la condizione dei percorsi quotidiani per capire quanto ancora c’è da fare per parlare di inclusione nella mobilità urbana e non.
Ad osservare strade dissestate, dislivelli, attraversamenti “improbabili”, gradini precari, sbarre, pavimentazioni più funzionali a progettualità architettoniche di tipo estetico che ad un utilizzo di tutti i cittadini, “sembra che la città abbia come interlocutore un’unica tipologia di utente: bipede, maschio, giovane e sano”,come hanno rilevato alcuni studi sociologici di politiche urbane.
Nessun progettista, ufficio tecnico o urbanista pare considerare la mobilità su quattro ruote (ad esclusione di quelle automobilistiche) siano esse di una carrozzina per disabili, di un passeggino per bimbi, con un carrello per la spesa al seguito, né quella con un bastone per non vedenti o la mobilità di ridotta per l’età avanzata o per un infortunio temporaneo.
Al contrario, sembra che la città sia un videogioco di percorsi ad ostacoli il cui traguardo è sopravvivere integri al raggiungimento di un ufficio pubblico, di un supermercato, di una scuola, del posto di lavoro, di un giardino o, semplicemente, del cestino dei rifiuti per la raccolta differenziata.

I tragitti quotidiani sono interrotti da continue barriere, e sottintendere il possesso di “abilità diverse” – come suggerisce con aplomb politically correct l’espressione “diversamente abili” (“abilità” nelle quali sembra quasi ci sia specializzati “per scelta”) – è solo un mero esercizio linguistico senza sostanza.
Ecco allora che la scissione tra i diritti sulla carta e quelli sulla propria pelle si allarga.
E questa davvero non è differenza di poco conto.

1 thought on “Economia politica e disabilità

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