Special Olympics
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Jacques T. Godbout ne “Lo spirito del dono” propone di considerare il dono come “sistema dei rapporti propriamente sociali in quanto questi sono irriducibili ai rapporti d’interesse economico o di potere”. Se prendiamo per buono questo assunto, allora anche lo sport, che è un collante sociale per eccellenza, non può non sperimentare il fenomeno del dono.

Possiamo legare lo sport e il dono in due modi. Da un lato, analizzando il dono intrinsecamente all’atto agonistico: che cos’è un assist se non un dono che un giocatore fa a un compagno di squadra per permettergli la segnatura o il punto? Spesso nel calcio si dice che l’attaccante, per sua natura, in area di rigore dev’essere un po’ egoista, mettere il puntello all’azione e tirare anche quando si potrebbe passare il pallone a un compagno meglio posizionato. Tuttavia sono frequenti i casi in cui lo spirito di squadra prevale e un attaccante cede il suo gol al compagno “a secco” da più partite di lui. In quel caso, il “dono” accresce la solidità della squadra e di conseguenza la possibilità di ottenere risultati migliori; negli sport di squadra si ha successo se tutta la squadra gioca bene: se a giocare bene è solo un elemento, i risultati scarseggiano. Per questo un eccessivo individualismo è nocivo. L’attaccante dell’Inter Samuel Eto’o ha detto questa frase emblematica sul suo compagno di reparto Diego Milito: “Mi ha fatto scoprire definitivamente il piacere dell’assist. L’intesa bellissima tra due grandi attaccanti. Il senso della squadra, l’interesse comune. Mi riempie di felicità vederlo esultare ogni volta”. Il senso della squadra come conseguenza del dono connaturato all’assist.

A volte il dono, nello sport, si scambia col rivale di sempre. Tutti noi abbiamo nella mente l’immagine dello scambio della borraccia fra Coppi e Bartali, avvenuto durante una tappa del Tour de France del 1952, sul passo del Galibier, un tratto della gara particolarmente ostico. Coppi e Bartali non erano solo due rivali nelle competizioni, erano due persone con una diversa visione della vita: come si legge su Wikipedia, “Curzio Malaparte scrisse che “c’è sangue nelle vene di Gino, mentre in quelle di Fausto c’è benzina“: questa dicotomia rappresentava appieno l’immagine di Bartali, solare e schietto campione contadino, sanguigno e amante di vino e buon cibo, di morale tradizionalista, e Fausto Coppi, personaggio tormentato, secco e atletico, fedele alla dieta e scientifico nella sua preparazione, di idee libertine ma malviste”. Ciononostante,
il rispetto fra i due non mancò mai e il passaggio della bottiglia d’acqua è divenuto un simbolo della rivalità cavalleresca. Se considerarlo un dono in senso stretto forse è una forzatura, è quanto di più simile al dono ci possa essere.

Il dono nel mondo sportivo si concretizza anche con le innumerevoli iniziative nell’ambito della solidarietà. Provate a digitare “sport e solidarietà” su Google. Le iniziative benefiche non si contano, sia a livello individuale che collettivo. Anche le grandi federazioni sportive mondiali sentono la responsabilità di donare, consapevoli del valore socio-culturale dello sport. In occasione dei Mondiali di calcio in Sudafrica la FIFA, la massima organizzazione calcistica mondiale, ha promosso l’iniziativa “Football for Hope”, una campagna che si è prefissa di creare 20 strutture in Africa con la finalità di promuovere l’istruzione attraverso il calcio. Come si legge sul sito ufficiale della FIFA, “il calcio è diventato uno strumento vitale per centinaia di programmi di sviluppo creati da associazioni non governative e organizzazioni community based sparse per il mondo”. Viste e considerate le tante distorsioni e magagne imputabili al mondo del calcio professionistico, iniziative come queste sono da incoraggiare.

E come Special Olympics: “un programma internazionale di allenamento sportivo e competizioni atletiche per più di 3.500.000 di persone, ragazzi ed adulti, con disabilità intellettiva. Nel mondo sono 180 i paesi che adottano il programma Special Olympics”. Special Olympics si prefigge di utilizzare lo sport per combattere il disagio e il pregiudizio legati a situazioni di disabilità intellettiva, per dare ai sofferenti la “possibilità di diventare cittadini utili alla società e quindi accettati, apprezzati, e rispettati dall’intera comunità. La convinzione di Special Olympics è che il programma sportivo e le competizioni che propone aiutino le persone con disabilità intellettive a migliorarsi fisicamente e crescere mentalmente, socialmente e spiritualmente”. Special Olympics è nato nel 1968 negli Stati Uniti; organizza ogni anno quasi 44.000 eventi, è riconosciuta dal Cio (Comitato Olimpico Internazionale) e conta ben 805.000 volontari che ogni anno si danno da fare per la realizzazione degli eventi sportivi. Sono gare, ma gare che premiano tutti: il giuramento dell’atleta di Special Olympics recita “Che io possa vincere, ma se non riuscissi che io possa tentare con tutte le mie forze”. Nessun dono “materiale”, nessuna Coppa o medaglia può raggiungere il valore degli obiettivi dell’organizzazione. Ma di casi ce ne sarebbero a migliaia.

Possiamo anche chiederci se il microcosmo degli sport professionistici, soprattutto dei più ricchi, non si senta in qualche modo “in dovere” di fare beneficienza e donare vista la condizione privilegiata in cui si trovano. Ma forse è bene pensare che, fra il donare e il non donare, sia migliore la prima soluzione e quindi, mettendo da parte un po’ di cinismo, lodare le iniziative benefiche legate agli sport, sia a livello dilettantistico che a quello professionistico.

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