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Parlando di minoranze, particolare rilevanza assume la questione linguistica. La lingua è espressione di una data cultura, è parte di ciò in cui un popolo si riconosce.

Ecco perché a partire dal 1800, con l’età dei nazionalismi, i vari Paesi europei, lavorando alla costruzione delle varie identità nazionali, puntarono molto sulla lingua. Essa era parte, infatti, insieme a una determinata storia, a una serie di eroi nazionali, al folklore e ad alcuni luoghi della memoria, uno dei più importanti elementi simbolici che ogni vera nazione doveva avere per definirsi tale. L’imposizione della lingua nazionale a popoli disparati, che si univano sotto un’unica bandiera, fu uno dei principali strumenti utilizzati per costruire un’identità comune.

Ma soprattutto, è uno dei più rilevanti metodi usati per imporre il potere, come spiegava anche George Orwell nei sui libri, ispirati dai nazionalismi del XX secolo. L’illuminato scrittore inglese diceva che il linguaggio diventa uno strumento di controllo delle menti, con l’obiettivo finale di distruggere la volontà e l’immaginazione. Chi controlla la lingua, infatti, controlla anche la storia e può manipolarla e riscriverla a suo piacimento1. Il concetto chiarisce perfettamente il modo in cui alcune lingue sono state trattate, cancellandole con l’imposizione di una nuova, ma spesso il tentativo è stato fallimentare e molte di esse si presentano oggi come minoranze che scalpitano in cerca di un riconoscimento più elevato.

Peggio del nazionalismo c’è solo l’imperialismo, il quale segna il passaggio da un’idea di nazione con cui si designava il territorio di un popolo storicamente unito da lingua, cultura, tradizioni a unideologia che rivendicava la supremazia militare, economica e culturale delle singole collettività nazionali. Il passaggio successivo fu quello di ritenere di avere il diritto di portare lopera civilizzatrice nei Paesi piùarretrati, anche con le armi, se necessario.

La colonizzazione che ha riguardato i continenti africani e americani non si discosta molto dalle sorti toccate alla Sardegna. Anch’essa, infatti, terra indomita, fu vittima di un’opera civilizzatrice che si concentrò prima di tutto sulla questione culturale, ad opera dei Savoia. Nel 1720 la Sardegna divenne sabauda: a quel tempo la classe dominante sarda si esprimeva in spagnolo o in catalano, lingue dell’amministrazione per secoli, mentre il popolo parlava il sardo, non un semplice dialetto, ma una lingua confermata da anni di letteratura e ampia tradizione orale.

I funzionari piemontesi, invisi ai sardi, parlavano, invece, in francese e usavano l’italiano (scelto da casa Savoia come lingua ufficiale dal XVI secolo, seppure nessuno dei suoi sudditi lo parlasse) per l’amministrazione. Con l’arrivo del conte Bogino al Ministero degli affari Sardegna nel 1759, alcune sue importanti riforme riguardarono la questione della lingua italiana. Così, anche in relazione alla ristrutturazione delle università sarde, il governo piemontese decise di procedere con più decisione nell’uso del “toscano letterario”, con grossa resistenza da parte della classe aristocratica sarda e, soprattutto del popolo, che di fatto, continuarono a utilizzare per oltre un secolo rispettivamente spagnolo e catalano e sardo.

Tra il 1847 e 1848, Carlo Baudi di Vesme fa addirittura un passo avanti. Nel suo Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, consiglia al Re Carlo Alberto di “proibire severamente e in ogni atto pubblico civile, non meno che nelle questioni ecclesiastiche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana”. E continua: “É necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, e affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del governo”.2 Dalle parole del consulente in materia politica emergono due fatti principali: il primo è che la Sardegna veniva considerata una nazione, evidentemente per le sue forti caratteristiche culturali e linguistiche; il secondo è che si rendeva necessario imporre a essa la lingua nazionale, per quell’opera civilizzatrice spiegata sopra, ma anche e soprattutto per controllare e dividere questa terra indomita e i suoi abitanti.

Murale – Lodine – Foto di @theandreapodda su Instagram

Nel primo periodo fascista la lingua sarda ebbe un po’ di respiro quando il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice espresse la necessità di inserire le lingue regionali nei testi didattici. Così, anche in Sardegna, tra il 1924 e il 1925, venne adottato, tra i tanti, il testo scolastico di Pantaleo Ledda, Sardegna-Almanacco per ragazzi, nel quale si spiegavano non solo la lingua, ma anche cultura, storia ed economia della Sardegna. Purtroppo durò troppo poco: dopo la morte di Matteotti, il regime fascista si fece più feroce nella sua opera di omologazione. Si vietò l’uso del sardo, le gare poetiche estemporanee e, addirittura, si cercò di limare il concetto di Regione, che poteva essere minaccioso per l’italianità.3

Il fascismo ebbe l’indegna fine che si meritava nel 1943, con l’estromissione di Mussolini, la monarchia nel 1948, con la nascita della Repubblica. Tanti anni di imposizioni non hanno cancellato il sardo, che ancora si parla, soprattutto tra gli anziani. Ai più giovani, purtroppo, resta poco di questa lingua, perché i sardi hanno creduto troppo nel fatto che la loro antica lingua fosse anacronistica, un salto indietro piuttosto che un tuffo nel progresso. Questo è visibile soprattutto nelle generazioni cresciute negli anni Sessanta, alle quali furono i genitori stessi a non insegnare il sardo, mentre le prime televisioni, anche nei piccoli paesi della Sardegna, passavano le lezioni di italiano per tutti.

La repubblica, quindi, e i moderni Stati inseriti in un’Europa libera ed eguale, non sono poi così differenti dai nazionalismi del passato, per il semplice motivo che poco (o niente) fanno per incentivare l’uso delle lingue locali, come il sardo in Sardegna. Una magra consolazione da parte dello Stato italiano arriva nel 1999, quando con la legge 482 viene riconosciuta ufficialmente l’esistenza di dodici minoranze linguistiche, tra cui il sardo, che, peraltro, aveva già ottenuto tale piccola onorificenza da leggi regionali.

Una magra consolazione che non è e non sarà abbastanza fino a quando le Istituzioni e gli stessi cittadini non si impegneranno, con la stessa tenacia con cui si è cercato di cancellare il sardo, per riportarlo in auge come lingua da parlare quotidianamente, con grande dolo delle generazioni che ormai l’hanno perso, ma per la gioia di quelle a venire che ancora potrebbero salvarlo.

Daniela Melis

1 Jem Berkes, Language as the Ultimate Weapon in Nineteen Eighty-Four, www.berkes.ca, 27 febbraio 2000

2 Francesco Casula, Sulla lingua sarda uno stato fuorilegge e inadempiente, da Il Manifesto Sardo, 1 luglio 2016

3 Francesco Casula, Quando a scuola si insegnava la lingua sarda, da Il Manifesto Sardo, 2 gennaio 2016

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