Foto di un matrimonio misto
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Articolo di Rosangela Spina

Numerosi eventi culturali svoltesi in anni recenti hanno evidenziato, attraverso cataloghi di usi e costumi provenienti dall’Africa, molti aspetti particolari su questo tema. Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia, colonie italiane dall’Italia liberale di Giolitti agli anni del fascismo, erano oggetto di protettorati, di conquiste, di guerre d’indipendenza, patria degli ascari indigeni ma cui parteciparono numerosi italiani, e luogo di spedizioni scientifiche ed esplorative per conto della Regia Marina. L’Istituto Coloniale Fascista promuoveva successivamente azioni culturali con scavi archeologici in Libia, commerci ed esposizioni coloniali di materiali indigeni provenienti da tutta l’Africa, dall’Albania e dal Dodecaneso. Rappresentava tutto quello che diventò un’emigrazione al contrario, il “sogno italiano” per la conquista di “un posto al sole” nella “Quarta Sponda dell’Impero”. I corsi di preparazione delle donne italiane alla vita coloniale, con i cosiddetti campi pre-coloniali, furono testimonianza dell’avventura da intraprendere, alla ricerca di una nuova vita, di una nuova famiglia.

Ancor prima dell’impresa mussoliniana, e dunque delle impiccagioni e dei gas asfissianti, prima della vicenda di Omar el Muktar in Libia, l’Africa Orientale era diventata una seconda patria di operai, architetti, notabili, scrittori, commercianti e uomini d’affare, professionisti e maestranze italiane, che lavoravano per il Negus Johannes IV in un reciproco rapporto di interscambio sociale e culturale. In città come Asmara, Gimma, Addis Abeba, Mogadiscio e Massaua si verificavano molte commistioni di tipo familiare: il nucleo italiano ivi trasferitosi acquisiva una bambinaia etiopica, ma erano frequenti anche i matrimoni avvenuti sul luogo e quelli misti.

Modella africanaL’immagine della donna indigena esotica, disponibile, era stato uno dei cliché più diffusi nei primi anni della conquista coloniale, anche attraverso le serie di cartoline di larga diffusione ad effetto di richiamo per i colonizzatori. Una modernizzazione più “all’occidentale” si impadroniva di molte giovani, di cui le più temerarie si facevano fotografare in pose azzardate. Al ritmo di “faccetta nera e bella abissina” molti ritratti di primo novecento, anche di nudo integrale, sono testimonianza di grande apertura. Splendide, alte e longilinee ragazze da conquista che, come scrivevano con invidia nei loro diari di viaggio alcune mogli italiane dei militari, erano libere da corpetti, bustini, stringhe e costrizioni. Una libertà e semplicità d’espressione che doveva impressionare non poco l’occhio degli uomini occidentali che arrivavano in Africa, con ancora in mente quel modello di donnina europea, dalla lunghe sottane smerlettate, inguantate e dai fardelli piumati in testa.

I primi matrimoni italiani in Africa Orientale, tra componenti dello stesso clan di provenienza, si tennero nell’ultimo decennio dell’ottocento. In queste immagini di fine secolo gli sposi sono presentati con un repertorio tipicamente occidentale. I matrimoni misti erano più rari, come quelli così definiti tra il “tenente” e la “madama”: ma si trattava spesso di concubinaggio, un rapporto more uxorio ben visto dalle stesse autorità, tra militari e un’amante indigena.

Non sembrerebbe esserci intolleranza. La prima legge razziale italiana, però, fu rivolta proprio ai matrimoni misti delle colonie, trattandosi evidentemente di un fenomeno che si stava allargando a dismisura. Dopo la proclamazione dell’Impero (1936) le unioni miste non furono più accettate. Con il Regio Decreto 880 del 19 aprile 1937, l’Italia promulgava la prima legge di tutela della razza, la prima di una serie di provvedimenti (Leggi razziali) rivolta proprio agli italiani che vivevano nelle colonie africane. La legge vietava i matrimoni misti e il cosiddetto madamato, cioè questo concubinaggio con donne africane qui dichiarate suddite.

Il decreto puniva con la reclusione gli italiani che osavano «inquinare la razza» per «elevare» l’indigena al proprio livello di appartenenza alla «razza superiore». Il regime aveva inasprito anche le norme che regolavano la concessione della cittadinanza italiana ai figli nati da unioni miste e in alcuni casi si vietava il loro riconoscimento. La prostituzione subiva un’impennata e la presenza di donne “bianche” in colonia erano viste come potenziali mogli dei “cittadini bianchi”.

Con i famosi Ventimila, sotto il governatore Italo Balbo era iniziata la “colonizzazione demografica intensiva”: su 876.563 abitanti, in Libia i residenti italiani erano 108.419 (Censimento ISTAT del 1939). Le nuove famiglie abitavano nelle modeste case coloniche dei villaggi agricoli costruiti dagli italiani (come il Duca degli Abruzzi, Crispi, Olivetti e Beda Littoria, per citarne alcuni) e più raramente nelle vecchia case arabe che, eppure, erano molto vicine al modello delle case a corte di domus romana. I villaggi indigeni inaugurati durante il fascismo in Libia comprendevano una moschea, la scuola, il caffè, il mercato del suq, la Casa del Fascio e servizi essenziali per una “sana vita colonica”.

In proposito voglio riportare un passo significativo da uno studio di Pietro Romanelli, voluto per iniziativa del Governatore della Tripolitania il Conte Volpi, su un lavoro di censimento di opere d’interesse artistico e storico, uno studio intitolato Vecchie case arabe di Tripoli e pubblicato su “Architettura e Arti Decorative” del Gennaio 1924:

«…. Come tutte le case d’Oriente, anche la casa tripolitana mostra il suo maggior pregio e la sua più particolare caratteristica nella decorazione, profusa nei cortili e nelle stanze, vivace, intonata all’ambiente sia fisico che etnico. Tale decorazione si fonda sopratutto su quattro elementi, tutti di lunga e copiosa tradizione nell’arte musulmana: le cornici scolpite intorno i vani delle porte e delle finestre, i rivestimenti parietali di maioliche policrome, i soffitti in legno intagliato e dipinto, gli ornati in stucco. Accanto peraltro a queste correnti ottomane un altro influsso si esercitò, e nemmeno in piccola misura, sui maestri tripolitani, ed è quello dell’arte coeva di Europa, e più in particolare di quella d’Italia, donde, oltre che i metodi e le forme, dovettero trarsi assai spesso anche i materiali costruttivi e decorativi; influsso a spiegare il quale non deve tenersi conto soltanto della vicinanza dei due paesi e dei frequenti scambi intercedenti fra loro, quanto piuttosto del fatto che molti di questi ignoti maestri, o per lo meno i loro più validi ed abili collaboratori, furono senza dubbio italiani, schiavi presi dalle navi barbaresche, portati a Tripoli, e quivi obbligati a lavorare per conto del pascià o dei suoi ministri. Sotto questo riguardo lo studio dei monumenti musulmani di Tripoli assume per noi una importanza assai maggiore di quanto a primo giudizio, e per il loro limitato valore artistico, potrebbe ritenersi …».

Tra attività commerciali, militarismo e famiglie indigene, le foto dei primi nati delle colonie nel nuovo secolo testimoniavano la continuità della vita degli italiani in questo pezzo d’Africa. Nonostante quanto successo in terra somala e in terra libica, dopo la confisca e l’espulsione del 1970, c’è chi ne parla con profonda nostalgia; molti sono rappresentati dall’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia.

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