Commissione europea
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Articolo di Milena Fadda

Quando si pensa all’Unione Europea, nell’accezione di entità sovranazionale, vengono in mente parole come “coesione”, “integrazione” e “inclusione”, simbolo, ancora una volta dell’accoglienza riservata a quanti provenienti da paesi meno fortunati: valori di uguaglianza che campeggiano nel quadro delle proposte europee. Ma la realtà del quotidiano, come sempre, è ben lontana dai trattati.

“L’Unione deve riconoscere e sostenere il contributo degli immigrati alla crescita economica, garantendo al tempo stesso la coesione sociale.”

Era il Maggio 2010 e l’incipit della relazione annuale sull’immigrazione parlava per conto dell’organo di governo dell’ Europa Unita: la Commissione.
Il rapporto stilato lo scorso anno, si proponeva di regolamentare il mercato del lavoro che vede protagonisti gli immigrati, oltre al diritto d’asilo, al ricongiungimento parentale, al tema della clandestinità.
Se nelle intenzioni di Bruxelles, l’ideale sarebbe una partecipazione effettiva della forza lavoro proveniente dai Paesi Terzi al mercato europeo, la difficoltà maggiore, ora come ora, risiede nel recepimento normativo da parte degli Stati membri.

La risposta della Francia è arrivata a maggio di quest’anno, con il sì del Senato a una legge presentata ad hoc dall’ UMP (Unione per un Movimento Popolare, già partito di Chirac), in cui le disposizioni sulla sicurezza interna danno man forte al rimpatrio dei clandestini: l’inasprimento dei controlli alle frontiere per scoraggiare il viaggi della speranza, tra le misure studiate dalla gestione Sarkozy per l’allontanamento di quanti non in possesso di documenti regolari.

Nel mentre, l’Unione europea fa il punto sul potenziale lavorativo di quanti, nel quinquennio 2000-2005, hanno partecipato al PIL del vecchio continente per il 21%.

Nonostante l’UE abbia intensificato i fondi destinati alla cooperazione con i paesi del Mediterraneo, passando da 5,3 a 7 miliardi di euro in programma fino al 2013, il temporaneo ripristino dell’obbligo di visto per i cittadini di alcuni paesi terzi, e già siano in previsione accordi di partnership tra UE e paesi africani allo scopo di valorizzare le peculiarità professionali in ingresso e colmare i vuoti di risorse presenti sul mercato europeo; proprio sull’urgenza delle tematiche legate al lavoro, arriva il “no” dei paesi membri.
In Italia, dal 2002 la Legge Bossi-Fini obbliga gli immigrati non in possesso di permesso di soggiorno a rientrare nel paese d’origine entro tre giorni dall’ eventuale “mancata identificazione”, oltre alla concessione del visto esclusivamente a quanti già muniti di contratto di lavoro.

Una norma che non tiene conto del fenomeno del caporalato: si parte dal dato che l’immigrazione avvenga in risposta a svariate forme di bisogno da parte di chi vi è costretto, anche clandestinamente. Lo sfruttamento della manodopera, in questo caso, non incontra le restrizioni applicate per via giudiziaria, dato che, chi è portato a lavorare in condizioni di bisogno estremo, difficilmente andrà a denunciare alle autorità italiane il proprio datore di lavoro, tanto meno nel caso in cui il lavoratore si trovi nel nostro paese clandestinamente. Come se non bastasse, secondo quanto emerso da una statistica prodotta nell’anno in corso dalle organizzazioni sindacali, i numeri si fanno imbarazzanti: si tratta di 400mila lavoratori sfruttati nei settori agricolo e edile, di cui 60mila in condizioni di schiavitù, variamente distribuiti sul territorio italiano.

Nel frattempo il costante rimpallo Germania-Italia non contribuisce a dare il buon esempio.
Se Christian Wulff, presidente in carica della Repubblica Federale Tedesca è quotidianamente impegnato a ricordare a Napolitano la risposta tedesca alla guerra nei Balcani dei primi anni ’90 in cui la patria di Beethoven diede alloggio a centomila profughi all’anno, ponendo l’ accento sulla responsabilità nazionale in materia di immigrazione, il Capo di Stato italiano ribadisce la necessità di regole condivise e applicate su scala continentale.
Sospesa tra ideale e realtà, invece, la legislazione Europea in materia di cittadinanza effettiva: nel 1992 il trattato di Maastricht sanciva la prima forma di cittadinanza europea, integrato nel 2000 con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’ UE, in cui, però, per essere cittadino europeo, bisogna già essere cittadino di uno Stato Membro.
Il problema della cittadinanza grava sull’intero continente, ma è l’Italia, stavolta, a rappresentare il fanalino di coda. Dopo le recenti polemiche sul voto agli stranieri residenti sul territorio nazionale, arriva il contraccolpo delle seconde generazioni.

Quell’8% rappresentato dai nati in Italia da genitori che italiani non sono, al compimento della maggiore età spesso si vede negare il diritto all’inclusione sociale.
La richiesta di cittadinanza sottoposta a una tassa di 200 euro, due anni per l’esame della domanda, visti in scadenza, intoppi burocratici, questi gli ostacoli principali in uno scenario, il nostro, che non non valuta la responsabilità di un fenomeno inarrestabile, che ha fatto fin’ora la storia e la fortuna di quei paesi promotori (superate le diffidenze iniziali) della sfida rappresentata dall’accoglienza: e non possiamo sapere cosa sarebbe, oggi, di Londra, Parigi, New York, Berlino senza quella pluralità di culture che ne hanno condizionato lo sviluppo in chiave attuale.
Proprio come lo skyline delle grandi metropoli, in continuo divenire, l’impronta indelebile delle trasformazioni sociali, modifica i connotati e il concetto stesso di comunità e appartenenza.
Obiettivi imprescindibili, che la macchina burocratica europea, dovrà essere in grado di affrontare, e stavolta in tempi utili, attuando quelle politiche di stabilizzazione già care a Schuman, titolare il 9 maggio del 1950 della prima dichiarazione orientata al processo di integrazione in ambito europeo.

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