Banditessa di Sardegna
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Ecco chi a sa matta so bessidu
Ca timìa a mi ponner in cadena;
Chie no hat proadu it’est bandidu
In su mundu no ischit it’est pena,
Si carchi orta si pesat dormidu
Sa oghe sua li paret anzena,
si a bortas intendet carchi frata
sa sentenzia sua paret fatta.

(Anonimo)

Ecco che mi son dato alla macchia
Perché temevo mi arrestassero;
chi non ha provato cos’è il bandito
non sa al mondo cosa vuol dire pena;
se qualche volta si sveglia
la sua voce gli sembra d’altri;
se a volte sente qualche fruscio
gli sembra già eseguita la sentenza.

Una visione perlopiù maschile dell’universo criminale ha indotto gli studiosi a trascurare quando non ad ignorare il tema della delinquenza al femminile. La stessa letteratura sul banditismo si è sempre dimostrata vasta ed esaustiva, perlopiù nella sua dimensione maschile. Fenomeno questo che non deve destare stupore, se si considera che si è iniziato a considerare la donna oggetto di studio solo nel momento in cui ha acquisito “visibilità”.

Nonostante a partire dal XVII secolo, significativi processi di mutamento inizino ad investire la struttura della famiglia, sotto il profilo giuridico dovrà ancora trascorrere del tempo prima che la donna, nei vari ordinamenti statali, divenga oggetto di considerazione. Alla luce di ciò è facile intuire come anche l’interesse per il tema della criminalità al femminile abbia seguito il medesimo destino, divenendo materia di indagine e trattazione teorica solo in epoca recente, allorché il quadro si è arricchito di ulteriori aspetti, insoliti per una storia al “maschile” fatta di ribelli fuorilegge.

Ci riferiamo alla partecipazione attiva della donna alla lotta banditesca che la vede ora fiancheggiatrice, ora essa stessa a capo di una banda. Nonostante il ritardo degli storici a considerarne attivamente il ruolo, sono notevoli i profili delle “banditesse”, sebbene solo di recente l’indagine ha alleggerito gli accenti mitici della narrazione nei resoconti biografici a vantaggio di letture oggettive relative a cronache dell’epoca e agli atti dei processi. Le interpretazioni della prima metà del Novecento descrivono le donne bandito isolane (come anche le brigantesse del Mezzogiorno) come “drude” al servizio di delinquenti, assassine e “virago della malavita macchiaiuola”, esponenti di quella piaga sarda, il banditismo appunto, che nato per contrastare il dominio dello straniero nell’isola, ha poi finito per diventare un metodo violento di protesta, all’origine di omicidi, faide e lotte senza esclusione di colpi.

La presenza delle banditesse nell’isola ha certamente contribuito a ribaltare il ruolo stereotipato della tradizione femminile isolana. Il recupero delle cronache giornalistiche e giudiziarie dell’epoca e l’analisi degli atti processuali ci ha consentito di conoscere i loro ritratti sul piano storico e ci ha fornito informazioni circa la profonda determinazione e il coraggio, insoliti agli occhi dei moderni, di cui furono capaci.

Fautrici di azioni ribelli e illecite, a volte particolarmente violente ed efferate, dettate non solo da un’esigenza di affermazione identitaria, quando necessario, giunsero perfino a comandare in prima persona una banda, a maneggiare armi di taglio e da fuoco, a pretendere e prelevare riscatti. Non di rado, inoltre, si trovarono coinvolte nel manutengolismo, nella fitta rete di relazioni clandestine con i parenti datisi alla macchia.
La comparazione delle fonti (archivistiche, iconografiche, leggendarie, orali) testimonia di una società, quella dell’entroterra barbaricina, in cui il ricordo, ancora vivo nella memoria della gente, ha creato le basi dell’immaginario collettivo represso dal potere.

Un immaginario che attraverso i racconti ci restituisce, tra le altre, immagini di donne in cui nonostante il colore e il sapore del mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati.

Alcuni ritratti di donna bandito, in particolare, chiariscono le tipologie sopra identificate. Sebbene non sia facile operare una scelta, ci riferiamo nello specifico ai casi più noti: quelli di Lucia Delitala, (che la tradizione popolare ricorda come l’amazzone di Nulvi), Maria Antonietta Serra Sanna (nota come sa reina, di Nuoro) e Paska Devaddis (reina di Orgosolo e de bandidos sorre e sentinella, regina di Orgosolo e dei banditi sorella e sentinella), icone del banditismo sardo al femminile, tutte native della Barbagia, figure splendide e dolenti di donne fuorilegge le cui storie hanno lasciato un alone mitico presso le popolazioni d’origine, ora “riciclate” nelle canzoni popolari, nei testi dei cantastorie e delle ballate profane, ora ripercorse nell’immaginario di studiosi e letterati che ne hanno romanzato le vicende in drammi e novelle. Donne dal carattere forte e dal cuore caldo, capaci di cavalcare e sparare come i compagni di latitanza, trovatesi a un tratto protagoniste loro malgrado nelle faide e nella disamistade che insanguinava i paesi, ma che alcuni ricordano anche come brave “meri de omu” (padrone di casa).

La ricostruzione delle loro storie di vita, per alcuni versi ancora legata ad elementi leggendari, se da un lato testimonia di come siano riuscite a sopravvivere e ad esercitare il potere malgrado le persecuzioni dello Stato e della Chiesa, dall’altro rappresenta una svolta nell’approccio al fenomeno, nell’intento di considerare queste figure come donne autonome e “psicologicamente” indipendenti nei comportamenti e negli intenti, al punto di poter azzardare l’ipotesi di “una prima ribellione femminile” allo stato di soggezione atavico e tradizionale delle donne.

Il ritratto che emerge dalla lettura e dall’analisi delle storie delle banditesse sarde è senza ombra di dubbio quello di donne emancipate, indipendenti, quindi decise, sebbene la donna a quei tempi fosse relegata a ben altre faccende, fermo restando il suo ruolo preminente e di potere regolato dalle leggi implicite, non dette e tantomeno scritte, di una radicata e ben funzionante società “matriarcale”.
Il governo piemontese definì le banditesse “un accidente mandato da Dio sulla terra per dannazione del genere umano”, donne che uccidono senza pietà e che spingono lontano la loro ferocia, vere e proprie fuorilegge capaci di commettere qualsiasi reato in segno di ribellione verso le leggi “straniere” e, sopra ogni altra cosa, in risposta agli affetti feriti.

Una volta crollato il mondo familiare intorno al quale si era costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostrava, infatti, ancor più feroce di quella maschile.
Sul periodo di latitanza delle banditesse tra le montagne del Gennargentu si raccontano episodi dati per certi sebbene non se ne possa negare il sapore leggendario. Una vita durissima e insicura quella della macchia, condivisa con altri latitanti il cui unico intento era eliminare i propri nemici con rapidissime discese in paese. Costrette ad una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate le banditesse accusano, come e più degli uomini, il peso dei disagi fisici di cui portano e mostrano i segni della debilitazione. Inoltre, la mancanza di igiene (per coprirsi spesso indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento) produce infezioni, che poco o niente curate le portano ad una morte prematura.

Non tutte le banditesse, tuttavia, scelsero la latitanza, sebbene ne fossero fiere sostenitrici. Verosimilmente dietro questa scelta poteva celarsi il desiderio o la necessità di continuare a mantenere uno stretto legame con la famiglia di origine, i fratelli soprattutto. Certo è che il paese obbediva ad ogni loro volontà quasi che anche una loro sola parola fosse in grado di aprire qualsiasi porta. Si racconta che nessuno osasse rivolgergli una lamentela, neanche minima, anzi, pare che incrociandole altere per le strade, molte persone s’inchinassero, più per timore che per rispetto, ritenendole le fosca ispiratrici di sanguinose imprese.

Questi fenomeni, essendo perlopiù limitati, costituiscono, tuttavia, un’eccezione e non la regola, e fanno da contraltare ai tanti episodi di rassegnazione femminile. Per questo stesso motivo, ci pare azzardato e fuorviante il tentativo di alcuni di attribuire autonomia assoluta al banditismo femminile. Verosimilmente sarebbe più corretto parlare di una questione dentro la questione, il che naturalmente non sminuisce certo il ruolo delle donne, ma anzi lo amplia e agevola la comprensione del fenomeno.

Quello che è certo è che il dramma di queste donne si è spesso consumato nell’indifferenza, quando non nel disprezzo, e nel silenzio dell’opinione pubblica. Gli atti ufficiali dei Carabinieri Reali, quelli delle Prefetture, i fascicoli processuali le hanno spesso accomunate agli uomini, non attribuendo loro un ruolo di soggetto sociale autonomo. Le cronache giornalistiche e alcuni scrittori non hanno mancato, inoltre, di descriverle, unicamente come manutengole e donne di piacere dei banditi.

Spesso intorno alle vicende umane dei banditi, il mito tende facilmente a tramutarsi in brutalità e crudeltà perché queste figure non abbiano ad entrare nell’immaginario collettivo come esempio positivo. Non deve allora stupire se, nel caso delle donne bandito, qualche storico, facendosi scudo del solito moralismo di maniera, abbia ridotto il fenomeno all’ambito ristretto delle pulsioni sessuali.

Ciò ha impedito, inizialmente, di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito, successivamente, uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici relativi alla presenza e al ruolo delle donne bandito, negando inoltre l’urgenza di trovare ulteriori elementi a conforto delle ipotesi intriganti e fascinose della presenza del mito e dell’archetipo femminile nel banditismo dell’altra metà del cielo.

Sebbene la stessa società civile, nel tentativo di ricomporre l’ordine violato, ha rifiutato di riconoscere la presenza di motivazioni lecite nella lotta che quell’ordine minerebbe alla base, pare altresì doveroso sottolineare la necessità di riconoscere all’origine del banditismo, anche femminile, non solo un’istanza delinquenziale ma un profondo disagio sociale: le protagoniste della lotta alla macchia non sono solo “banditesse”, ma “esseri umani” nella normale pienezza del loro essere. Donne che, per via di una condizione umana e sociale verosimilmente insopportabile, rompono gli schemi consolidati della normalità quotidiana, abbandonano e rinunciano definitivamente alla pace domestica. Non è né resa né fuga la loro. E’ qualcosa di profondamente diverso a far svestire i panni della rassegnazione per imbracciare quelli della fierezza: è ribellione, è scatto d’orgoglio, è ansia di libertà, è riappropriazione del proprio essere.

Di queste donne oggi restano solamente le poco foto che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del banditismo. Così, accanto alle poche banditesse che si sono fatte ritrarre , armi in pugno e in abiti maschili, vi sono solo le foto ufficiali scattate dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura, dunque, innaturale.
Tuttavia, il tentativo di impoverirne il ruolo e annullarne il ricordo ha determinato l’effetto opposto: le ha sottratte dall’anonimato e le ha consegnate alla storia e alla memoria, forse anche come monito di diffidare di coloro che la storia l’hanno progettata, fatta o solamente scritta “a pancia piena”.

Fonti

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Todde M.S., Banditesse in Sardegna: il fenomeno del banditismo al femminile, Rivista di Psicodinamica Criminale, Anno III – n. 3 novembre 2010, Padova

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