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Di Elisa Scaringi

Alcuni insegnanti lasciano il segno. E decine di studenti li ricordano come padri o madri spirituali. La loro dote sta nel saper trasmettere una certa forma di pensiero interiore, che trascende la nozionistica e introduce alla conoscenza della vita.

Questa è stata, per molti universitari, l’esperienza vissuta con Armando Gnisci, professore associato di letteratura comparata presso l’Università La Sapienza di Roma dal 1983 al 2010, scomparso il 17 giugno scorso.

Frequentare le sue lezioni ha significato intraprendere un cammino di rivoluzione interiore, capace di trasformare l’occhio critico, dei giovani, sul mondo. Soprattutto perché i testi da lui studiati, e amati, non erano quelli accademici. Fu il primo, infatti, a segnalare, nel 1992, la nascente letteratura italiana della migrazione e della mondializzazione, appena un anno dopo la pubblicazione dei primi testi scritti, in italiano, da autori migranti. La sua divenne una militanza originale e primordiale al fianco degli stranieri, che cercavano, e tentano tutt’oggi, di aprirsi un varco tra la paura e l’indifferenza. Per lui si trattava di banalissimi ostacoli, facilmente superabili se solo si fossero letti libri, ascoltate musiche e guardati film. I suoi manuali non rappresentavano altro che viaggi personali, e poi collettivi, verso una decolonizzazione dei bianchi occidentali. Divenne fondamentale tramandare e suscitare nelle giovani generazioni domande che, ancora oggi, a distanza di vent’anni, sono di una attualità sconcertante: che idea hanno gli europei dell’alterità? Cosa può significare la parola “attraverso” inserita all’interno del concetto di cultura? Possiamo ancora sostenere come forma di etnocentrismo l’euroccidentalità? Cosa bisogna leggere, ascoltare e vedere per avviarci a comprendere quelli che continuiamo, con ostinazione, a chiamare “altri”? Siamo sicuri, noi bianchi occidentali, di possedere un senso positivo e realistico della relazione interculturale?

Armando Gnisci cercò di dare delle risposte sensate, e umanissime, essendosi trovato nei panni dell’insegnante che viene investito dalle migrazioni e si dà da fare per aggiornarsi. Si definiva un letterato interculturale e si dimise dall’università, nel 2010, confessando, in una lettera ai suoi studenti, che aveva vissuto per quarant’anni la professione accademica “come uno straniero in terra straniera”.

Per lui i veri colleghi furono i suoi alunni, ragazze e ragazzi con i quali sapeva di poter coltivare la giustizia e la compassione, che sempre hanno caratterizzato il suo sapere di docente. A loro lasciò il suo testamento spirituale. “Vi chiedo, in ultimo, di non perdere speranza, in voi stessi e nella comune repubblica, che sembra tramontare sull’orizzonte civile degli italiani, invece che venirci incontro come “il sole dell’avvenire”. Gli ultimi vent’anni della sua carriera accademica furono segnati da una presa di coscienza di quanto la civiltà europea fosse manchevole di ospitalità, giustizia, integrazione. “In questa epoca in cui la nostra indefessa ricolonizzazione immateriale del mondo avviene attraverso gli strumenti di ferro del WTO, della Banca Mondiale, della cupola insopportabile del G8 e della guerra preventiva dei ricchi contro i poveri, mentre i poveri cercano di spostarsi verso le nostre terre.

Non fanno civiltà interculturale né i prestiti a strozzo con gli aggiustamenti strutturali, né la cooperazione internazionale, né la carità dei missionari cristiani; né le leggi poliziesche che la “fortezza Europa” ha messo a punto, malamente (più malamente che altrove, in Italia) contro i migranti.”

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