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Articolo di Laura Gatto

Autolesionismo. Dolore catartico e salvifico che sposta la sofferenza mentale nella dimensione fisica. Sintomo più attuale di un disagio giovanile sempre più avvertito ma ancora celato e consumato in solitudine che accompagna flotte di adolescenti nel loro cammino di crescita.

Con livelli diversi di disagio, tutti gli adolescenti “si sentono in crisi”; le crisi adolescenziali derivano dalla mutevolezza e dall’incertezza che lo sviluppo mentale e l’accrescimento fisico comportano.
L’abbandono dell’infanzia e del suo mondo viene accompagnato da un senso di perdita e vissuto come un periodo di lutto. L’adolescente, infatti, pian piano si lascia alle spalle il porto sicuro della fanciullezza per intraprendere un viaggio verso una meta di cui ancora non sa nulla. Nell’intento di crescere tende ai poli opposti ed estremi e ogni azione, comportamento e pensiero non sono mai una via di mezzo, così ha bisogno di apertura o di chiusura dal mondo, ha necessità di parlare o di tacere, prova sofferenza o gioia, ha voglia di diventare grande o di rimanere bambino ed è, quindi, una fase connotata da una forte emotività. La paura dell’incertezza diviene ansia che si accumula e che spinge da dentro facendo male senza tregua in una situazione di instabilità fisica e di ristrutturazione identitaria. I cambiamenti puberali, le prime metamorfosi del corpo suscitano sorpresa e insieme disagio. Il corpo che cambia può essere percepito come qualcosa di estraneo, questa estraneità viene accentuata dai tratti sessuali che via via divengono sempre più marcati. Le trasformazioni corporee possono alimentare nella mente dell’adolescente fantasie di deformità inesistenti legate ad una distorsione dell’immagine corporea che deriva da una mancata corrispondenza tra quella mentale e quella reale del proprio corpo. La ferita sul corpo diviene un tentativo fisico di elaborare il passaggio e l’instabilità che esso comporta.

In tale contesto di riflessione bisogna considerare che le modalità di fronteggiamento delle trasformazioni adolescenziali fanno leva sui vissuti infantili, su quelle strutture costruite in interazione con l’ambiente sociale via via sempre più allargato. La maggiore o minore solidità di queste strutture rende più o meno tortuoso il percorso verso la costruzione dell’identità adulta. Ecco che oltre al manifesto sintomo del male fisico proprio dell’autolesionismo bisogna spostarsi su una dimensione più intima: il male interiore. Gli etichettati cutters sono spesso la tragica eredità di disumanizzanti esperienze infantili. Bambini traumatizzati, violati, abbandonati, bambini “educati al meglio con la vera disciplina”. Figli di adulti presi da altro, di adulti dalle reazioni imprevedibili, di adulti troppo presenti e ingombranti con l’ansia delle loro aspettative, adulti che diseducano al linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. Adulti, eterni adolescenti, incapaci di crescere e di far crescere, di aiutare, di ascoltare e di comprendere, adulti indifferenti, irresponsabili. Ed ecco che si comprende meglio come l’autolesionismo sia il volto del disagio di quell’adolescente venuto fuori da quel bambino di cui ha abbandonato l’aspetto fisico portandosi dietro il vissuto psicologico. Vissuto di un bambino a cui sono stati violati corpo e anima, di un bambino impotente di fermare la brutalità di un adulto, un bambino ferito anche dall’indifferenza o dalla paura di chi guarda e non si ribella, un bambino che non ha superato l’abbandono, il lutto, la sua infermità. Un bambino senza limiti, invaso, deturpato, che adolescente cerca ancora i suoi confini emotivi e psicologici.

L’autolesionismo diviene autoconservazione: il male inflitto al corpo diviene salvifico, la ferita è un armistizio tra l’impulso di vita e quello di morte, l’adolescente che colpisce il proprio corpo sacrifica una parte di esso per il bene del tutto. La ferita sul corpo lungi dall’essere un inno alla morte, ha la funzione di riportare alla vita. L’elaborazione dei conflitti viene agita con le lesioni. Il corpo, seppur nella sua mutevolezza, appare l’unica cosa tangibile a cui potersi aggrappare: tagli, bruciature, fratture di ossa ed altre modalità di ferimento divengono il modo più efficace per gestire l’incertezza e il disagio interiore, divengono promemoria scritti con cura sulla pelle per chi cerca su avambracci, polsi, ventre e gambe, cioè sulle zone più colpite, un segno di controllo su di sé e una prova concreta di esser-ci.

Un’ultima riflessione sulle ragazze che feriscono il proprio corpo: esse sono più numerose rispetto ai ragazzi e non a caso. Il sesso femminile è portato culturalmente ad interiorizzare la sofferenza e a farla implodere piuttosto che riversarla sul mondo esterno. Le nostre società si aspettano, quasi come se fosse un fatto naturale, che le donne siano inclini alla passività, alla sofferenza, alla sopportazione del dolore, al sacrificio di sé e ad anteporre i bisogni degli altri ai propri. In tutto il processo di socializzazione e di formazione dell’identità personale, il mondo sociale ci indirizza verso il polo della mascolinità o della femminilità e alle differenze psicologiche che caratterizzano i due generi. Il primo messaggio sul sesso a cui si appartiene viene felicemente pronunciato alla nascita: “è nato un maschietto”, viceversa, “è nata una femminuccia”. Voler sapere il sesso del nascituro sembra una ossessione, l’ecografia soddisfa il desiderio di conoscerlo. Ora, se il sesso è un dato biologico, la femminilità e la mascolinità hanno una connotazione culturale che attribuisce al loro significato un certo relativismo. La conoscenza del sesso del bambino, prima che egli nasca, è l’inizio di quel processo di tipizzazione sessuale che si accentuerà in seguito all’evento: vestitini tutti rosa o tutti celesti, giochi per femminucce o per maschietti. In seguito, le bambine indosseranno per lo più vestitini e gonnelline, riceveranno bamboline, aspirapolveri e lavatrici giocattolo e i maschietti pistole, macchine telecomandate, mostri e robot: una riproduzione in miniatura degli oggetti con cui verranno esercitati i ruoli che la società si aspetta da loro una volta grandi. E questi giochi infantili, esercizio di un ruolo adulto, trasmettono trasversalmente i diversi atteggiamenti che i futuri uomini e donne dovranno assumere. Così, l’uomo, ormai adulto, si sentirà “giustificato” socialmente a manifestare verso l’esterno i suoi sentimenti negativi, essendo stato “viziato” sin dalla nascita a farlo. La sofferenza viene attaccata e fatta esplodere al di fuori come una sorta di aggressione virile contro l’ingiusto delle cose e delle persone. Anche le inquietudini interiori, che avverte come una minaccia alla integrità del proprio Sé, vengono scaricate all’esterno, la riflessione e l’elaborazione delle emozioni si traducono per lo più in azioni. Il contrario accade per la donna socializzata a interiorizzare il dolore che proviene dal mondo e a soffrire in silenzio.
E anche se le società moderne cominciano ad accettare una maggiore aggressività negli atteggiamenti delle donne, la loro fragilità emotiva e il loro assoggettamento alle sofferenze pare una eredità cromosomica che si tramanda da una generazione femminile ad un’altra, il cui gene è difficile da estinguere. In questa situazione, pare più facile comprendere perché l’autolesionismo sia praticato maggiormente dalle donne. Sono donne che con difficoltà riescono a difendere il loro spazio fisico, psicologico e sociale. Emozioni aggiunte ad emozioni, nella maggior parte rimaste inespresse, coltivate nella silenziosa sofferenza, ingigantite dai sensi di colpa e dall’impossibilità di manifestarle a parola. La valvola di sfogo più efficace appare la lesione corporale, una comunicazione più espressiva della sofferenza interiore che sulla pelle appare degna di attenzione, anche se spesso diviene oggetto di critiche pesanti. Ma esprime anche un disagio legato al corpo, quel corpo di “femmina” e non più di donna che diviene oggetto di desiderio dello sguardo altrui afflitto da una grave cecità per ciò che sta dentro. Corpo divenuto oggetto anche per chi lo possiede e vuole affermare la propria identità per suo tramite, perché per esserci bisogna apparire e non essere!
L’autolesionismo nelle donne permette di riprendere le redini della propria vita intesa nella sua multidimensionalità e per alcune diviene il modo più efficace per poter vivere la loro condizione di donna.

Tra le ferite del corpo e quelle dell’anima la sofferenza interiore è quella che fa più male, una sofferenza partorita in seno alla società incapace di educare adolescenti muti che divengono vittime sopraffatte da una emotività sempre meno comprensibile e gestibile e che ledono il loro corpo per dar sfogo a quei sentimenti che non sanno, o forse non hanno mai appreso a gestire e ad esprimere a parole.

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