Pastori e banditi di Domenech
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Banditi di Sardegna fra romanzi, realtà e leggenda.

I banditi sardi vivono, ma non si arricchiscono del loro mestiere; il banditismo in Sardegna non è un mestiere come in Calabria, nella Romagna o nel Messico; è un lavoro forzato, è la conseguenza della vendetta. E’ certamente una piaga del paese, ma una piaga che trova spesso la spiegazione nella venalità della giustizia, e fa meno male di quanto non ne facciano i giudici, gli avvocati e i medici.

E’ con Domenech e con il suo “Pastori e banditi” che ci immergiamo in quel mondo di contrasti, di contraddizioni, di mistero e di romanticismo, di violenza, di povertà, di fame, di isolamento e cavalleria che è stato il banditismo in Sardegna.
Li temevano in Sardegna i banditi, ma pure li stimavano e li rispettavano, perché avevano il coraggio di porsi oltre quella legge che non era dei sardi.
Strano, vien da pensare, perché i banditi ci hanno insegnato a condannarli, criticarli, a non condividerne le azioni. E’ allora perché agli albori degli anni 30 del novecento Domenech li dice appartenenti ad una onorevole categoria, che, ci confida, desta in lui una certa simpatia?
Il motivo deve essere lo stesso che spinge la vedova, buona ospite di Olì, protagonista in bianco e nero di uno dei più grandi romanzi della Deledda, a dire di suo marito scomparso con una fierezza spettrale che sì, era bandito, e che “dieci anni stette bandito. Egli dovette darsi alla campagna pochi mesi dopo le nostre nozze: io andavo a trovarlo sui monti del Gennargentu, egli cacciava mufloni, aquile, avvoltoi, ed ogni volta ch’io andavo a trovarlo, egli faceva arrostire una coscia di muflone. Dormivamo all’aperto, sotto il vento, sulle cime dei monti, ma ci coprivamo con quel gabbano là, e le mani di mio marito ardevano sempre, anche quando nevicava…”.

Erano tutti uomini abili quelli che vivevano insieme al marito della vedova, che prosegue tutta trasportata dai ricordi del passato. “Tu credi che i banditi siano gente cattiva? Tu ti inganni, sorella cara: essi sono uomini che hanno bisogno di spiegare la loro abilità; null’altro…”
Alla conclusione del racconto della vedova Olì che aveva sempre creduto che i banditi fossero gente malvagia si convinse che erano poveri disgraziati, spinti al male dalla fatalità.
I banditi ispirano pietà, simpatia, amore, rispetto, ospitalità anche nel “Vecchio della montagna”, e nell’indimenticato “Marianna Sirca”, ma oltre quel romanticismo melanconico e drammatico che la Deledda metteva nel descrivere la sua terra lontana e i suoi uomini condannati alla vita, ci deve essere dell’altro.

D’altronde i banditi sono i cattivi, quelli che rubano, quelli che sparano, quelli che rapiscono?
No, non esattamente. Tanto per cominciare il banditismo rurale niente aveva di politico o di finanziario, aspetto che assumerà dopo la seconda guerra mondiale, piuttosto doveva essere semplice ed elementare, espressione di un forte disagio sociale, che non fa altro che incrementare in maniera esponenziale con il ricorso, da parte dei dominanti, della violenza.
In un certo senso il banditismo, quello rurale, può essere letto come il conflitto fra una comunità pastorale che vive da millenni le proprie regole, e uno stato di conquistatori che vogliono imporre le proprie. Se poi si conta che la cultura barbaricina, nella quale il banditismo si radica maggiormente, è una cultura di oppressi che mai accettano questa oppressione e che lottano dignitosamente per la propria indipendenza e per la propria libertà, inizia a farsi più chiaro il motivo di quella certa simpatia di cui parlava il Domenech, e di cui racconta la romanziera sarda, impregnandone i gesti, i pensieri, le parole dei propri protagonisti.
Disagi che probabilmente si vengono ad enfatizzare con la completa caduta dei giudicati e la conquista dell’isola da parte degli iberici con il loro feudalesimo forzato, e che peggiorò alcuni secoli più tardi, con l’emanazione dell’editto delle chiudende (1820) che autorizzava chiunque ne avesse la possibilità, a chiudere quei terreni che per tradizione erano stati comuni, impedendo ai pastori di utilizzarli ancora gratuitamente.

E ovviamente a chiudere quei terreni di tutti e di nessuno furono i signorotti, gli unici che ne avevano realmente i mezzi e la possibilità. Fu allora che le condizioni dei sardi pastori e di riflesso contadini peggiorarono drasticamente.
A dar spiegazione al banditismo poi c’era quel sentimento di vendetta che Domenech racconta proprio in egual misura dei sardi e dei corsi: “Il sardo è suscettibile e delicatissimo nel punto d’onore; non perdona facilmente un’offesa e ve ne sono che non perdonano mai”.
Il codice barbaricino, del quale per primo parlò Antonio Pigliaru, nacque probabilmente per dar risposta alla cronica sfiducia e incapacità dello Stato, si consolidò rapidamente trasmettendosi oralmente ed entrando nelle fibre culturali sarde più intime.

Era un ordinamento giuridico la vendetta, e un uomo d’onore non si poteva sottrarre alla vendetta che doveva essere progressiva, prudente e proporzionata. Il balente era, chi dotato di forza fisica e morale, dominava la sorte e si vendicava del proprio nemico, sopravvivendogli. Ottenuta la propria vendetta il balente diventava bandito, leale con i suoi compagni, doveva giurare il falso con le forze dell’ordine e la magistratura, veri colpevoli di una situazione di disagio in cui la giustizia ce la si doveva fare da sé.
D’altronde il passaggio da pastore a bandito era piuttosto semplice: era sufficiente una spiata falsa, un errore della giustizia, un nemico potente per trasformare il pastore in latitante ed immediatamente colpevole. Emilio Lussu li chiama banditi d’onore, votati ad una latitanza che somigliava alla vita solitaria ed isolata che il pastore viveva in condizioni normali, solo e lontano dalla famiglia per lunghi, lunghissimi periodi di tempo.
Agli antipodi del balente e del bandito c’era su guastu, che non poteva compiere per assenza di forza fisica e coraggio la propria vendetta, per dirla in una parola non poteva tutelare il proprio onore.

A dimostrare la simpatia, la stima, la comprensione di cui socialmente godevano i banditi, uomini balenti, che si schieravano attivamente contro sa giustizia ingiusta, se non bastassero le parole della Deledda e del Domenech, potremmo ricordare di quelle numerose leggende che raccontano di amuleti portati indosso dai banditi e confezionati niente di meno che dai preti, che conoscevano is brebus contro il potere della palla (delle pallottole). “A Lodine, sperduta borgata, viveva il sacerdote Lutzu, partecipe di varie rapine e Sibilla dei briganti della regione: forniva ai banditi amuleti e formule magiche contro le ferite da palla”.
Tanto si reputavano potenti questi amuleti che dei banditi uccisi dalla giustizia durante le sparatorie, si diceva non portassero indosso il proprio amuleto perché stanchi di quella vita, volevano morire “in battaglia”. Era infatti impensabile che un bandito si consegnasse vivo alla giustizia, l’onore d’altronde era onore.

E per sempre ricorderemo la vedova del romanzo “Cenere” che osservando il gabbano di suo marito morto bandito dice: “non lo toccherò mai, anche se dovrò morire di freddo. I miei figli lo indosseranno quando saranno abili come il padre loro”. D’altronde per questo gli aveva posto il nome del padre, perché gli somiglino.
Un fenomeno che non si può spiegare a parole, che si arrotola fra bisogno di giustizia, necessità di sopravvivenza e di vendetta, unica capace di garantire l’onore. Ma se lo Stato fosse stato più presente, forse oggi vi avrei raccontato un’altra storia.

Fonti

Pigliaru A., 1975. Il codice della vendetta barbaricina. Giuffrè Edizioni

Deledda G., 1961. Cenere. Milano: Arnaldo Mondadori Editore

Deledda G., 1955. Il vecchio della Montagna. Milano: Arnaldo Mondadori Editore

Satta A., L’idea di brigantaggio. Dal banditismo rurale al banditismo civilizzato

Todde M.S., Banditesse in Sardegna: il fenomeno del
banditismo al femminile. Pubblicato in “Rivista Psicodinamica Criminale”

Cagnetta F., 1975. Banditi ad Orgosolo. Firenze: Guaraldi Editore

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