Le due signore di Istanbul, la Moschea Blu e Aghia Sophia
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Articolo di Laura Tocco

All’indomani della proclamazione della Repubblica Turca, il suo padre fondatore, Mustafa Kemal, tracciò la strada della modernizzazione del paese. Nel solco di questo processo, si inseriva una serie di cambiamenti rivoluzionari per il ruolo sociale della donna. L’introduzione del Codice Civile del 1926, redatto sul modello svizzero, mise al bando la poligamia.

Nel 1934 arrivò l’introduzione del suffragio universale, considerato dal fronte nazionalista come la più grande espressione di progresso sociale. Tuttavia, negli anni, non furono introdotte modifiche significative fino al 2001, quando la riforma costituzionale sancì l’eguaglianza tra coniugi. Nel 2004, arrivò anche quella del Codice Penale che finalmente configurava la violenza subita dalla donna come un crimine perseguibile penalmente. Altre misure cercarono di rimuovere i consolidati concetti patriarcali come l’onore, la morale pubblica, il buon costume e la decenza. Nonostante ciò, l’assetto giuridico non ha trovato, ancora oggi, una piena corrispondenza a livello pratico. Attualmente, le donne in Turchia costituiscono il 51% della popolazione. Circa il 39% di esse ha subito violenza fisica da parte del proprio partner almeno una volta nella vita. Alla violenza fisica, sessuale e psicologica, si aggiungono le diffuse consuetudini che limitano la libertà della donna, tra queste, il matrimonio combinato è certamente una delle usanze più opprimenti, specialmente nelle zone rurali.

L’unica forma di unione matrimoniale riconosciuta dalla Repubblica è quella civile. Questa, infatti, è la sola a conferire alla donna gli strumenti giuridici di tutela personale. Per tale motivo, a partire dall’abolizione della poligamia, l’uomo ha privilegiato il matrimonio religioso rispetto a quello civile. Inoltre, in tempi più recenti, la realizzazione delle riforme si è scontrata con il potere della tradizione, usata spesso come strumento di controllo dell’azione femminile. Questa pratica è molto più diffusa nell’Est anatolico, zona caratterizzata da un sistema tradizionale, semi-feudale e da un’economia prevalentemente agricola. In questa regione, il ruolo della donna è fortemente legato alla struttura sociale ed economica e non sembra possa essere interamente ricondotto alla disciplina del diritto islamico di famiglia. Nell’Islam, infatti, non esiste un unico modo di concepire la donna nella società. Inoltre, la regione presenta un carattere multietnico che ha permesso a differenti scuole religiose di insediarsi. Infatti, oltre alle tradizioni giuridiche sunnite, cioè la hanafita e la sciafiita, vi risiedono anche alcune componenti sciite.

Tra queste, la componente alevi, considerata sciita in virtù della sua devozione all’imam Alì, rifiuta, ancora oggi, la discriminazione di genere nella sfera pubblica e nel sociale. Pertanto, le diverse forme di Islam presenti nel territorio non ci permettono di ricondurre il ruolo della donna al solo fattore religioso. Al contrario, la sua posizione sembra avere le radici nella società figlia della rivoluzione agricola. La famiglia patriarcale è legata al principio della castità femminile e al controllo della sessualità della donna in funzione dell’identità sociale dell’uomo. La famiglia rappresenta il fulcro dell’attività economica e pone al centro una forma di tutela della donna che si rinnova in un controllo sociale oppressivo e autoritario.

Una delle cause più gravi della violenza domestica è il delitto d’onore. Il termine si riferisce all’assassinio di una donna considerata colpevole di aver superato i suoi limiti sessuali. L’espressione “delitto d’onore” è il riflesso di una cultura in cui gli uomini definiscono l’onore personale sulla base della condotta della propria donna. Anche in tale caso, questa pratica non è da ricondurre, come erroneamente accade, al diritto islamico. Sebbene la giurisprudenza islamica punisca l’adulterio, chiede che almeno quattro testimoni vi abbiano assistito. Ciò rende l’eventuale accusa, sul piano pratico, di difficile verificabilità. Questo farebbe pensare più ad un principio religioso simbolico piuttosto che ad un’ipotesi concreta. Tuttavia, numerose donne temono di subire violenza per adulterio, in molte realtà, infatti, l’accusa dell’uomo riveste credibilità sociale superiore a quella della donna.

Se è vero, dunque, che la Turchia ha compiuto dei passi considerevoli nelle manovre di condanna della violenza familiare, è altrettanto vero che le donne turche attendono ancora una concreta realizzazione delle riforme. Molte di loro, infatti, non denunciano di avere subito violenza e, in alcuni casi, accettano le violazioni da parte del proprio partner. Alla rivoluzione in ambito giuridico non si è affiancata una reale campagna dal basso, pertanto, permangono forti resistenze al cambiamento che impediscono alle donne di negoziare la propria funzione nella società per una posizione paritaria rispetto agli uomini.

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