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La parte incredibile della demografia è che le sue proiezioni sul futuro sono credibili. Le sue tendenze sono abbastanza stabili perché i nostri comportamenti variano con lentezza e quindi le conseguenze dei cambiamenti arrivano lentamente. La demografia aiuta a impostare un ragionamento sul futuro, in modo tale da valorizzare ciò che sappiamo e, a misurare, attraverso metodi indiretti, anche i flussi migratori. Bisogna, perciò, scomporre tali osservazioni per beneficiare di un approccio che permetta una migliore comprensione della realtà. E in un periodo di grandi cambiamenti come è questo, è necessario riuscire ad elaborare ipotesi sul futuro che ci aiutino a migliorare la tendenza che si avverte.

I piccoli paesi italiani sono oltre cinquemila, la gran parte di loro non supera i cinquemila abitanti e di questi si stima che circa tremila sono a rischio estinzione. Le condizioni socio economiche sono radicalmente mutate in questi piccoli centri: infrastrutture e trasporti carenti o inesistenti, la mancanza di politiche di impiego vengono accompagnate dall’esodo in massa verso le grandi aree urbane. Affrontare lo spopolamento oggi è complicato e comporta costi, disagi e una pessima qualità della vita: dalle scuole e ospedali sovraffollati, al degrado nelle periferie, per non parlare dell’impoverimento culturale dovuto all’abbandono di tradizioni e potenzialità.

Ognuno di questi paesi rappresenta una realtà virtuosa, grazie ai musei, monumenti ed aree archeologiche, fino ai prodotti eno-gastronomici, questi piccoli comuni, se adeguatamente sostenuti aprirebbero nuove opportunità di crescita e sviluppo per coloro che vorrebbero rimanere nel proprio luogo d’origine.
Molti Paesi euro mediterranei hanno già intrapreso una serie di misure volte a favorire la ripresa della residenzialità nelle zone fortemente disagiate, migliorando la qualità della vita di chi ha scelto di rimanere o trasferirsi, e cercando di sviluppare le condizioni per uno sviluppo del turismo salvaguardando le bellezze architettoniche che li contraddistinguono. È necessario disegnare un paese che possa offrire qualcosa di alternativo oltre ai servizi essenziali; dovremmo ripristinare, in primo luogo, lo spirito comunitario e il senso di appartenenza.

La socialità di un tempo prevedeva l’incontrarsi: piazze, strade, negozi, centri di aggregazione; ora invece, ogni relazione passa per il web e ne esce indebolita. Tra un bicchiere di vino, le carte e quattro chiacchiere, si sviluppa l’arte del perdere tempo e si impara a raccontarsi o ad ascoltare le storie altrui, costruendo una rete di rapporti sociali che obbligano al confronto e si traducono in comunità.
E proprio da una comunità di circa 500 abitanti che la scorsa esatte nasce un progetto alternativo di sviluppo turistico e di relazione. Nughedu Santa Vittoria, un paesino di montagna a cavallo tra le province di Oristano e Nuoro, ha deciso di combattere lo spopolamento attraverso il social eating e per una sera, si è trasformato in un ristorante a cielo aperto.

Il social eating non è altro che una rete di appassionati di buon cibo e tradizioni che decidono di sfidare l’abbandono dei luoghi e di promuovere e sviluppare le economie locali e l’acquisto a km 0, ma non solo, è anche un modo di fare cultura ed è ormai divenuto un fenomeno virale che sta avendo grosso successo anche in città, ma sopratutto permette di condividere l’esperienza del pasto con degli sconosciuti.
E se il il cibo è il più vecchio dei social network e, se ad elaborare i menù sono chef stellati, allora l’esperienza del pasto diventa un momento di aggregazione e condivisione, il tutto condito con dell’ottimo cibo a prezzi accessibili a tutti e che quindi sta diventando una delle principali opzioni di socializzazione.

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