Armungia la bottega del fabbro
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Povertà e disoccupazione sono due facce della stessa medaglia. Il fatto che il fenomeno della povertà si leghi strettamente a quello della disoccupazione è sintomo di una depressione strutturale che va al di là della contingente crisi economica e che non a caso caratterizza passato, presente e probabilmente futuro di alcune delle aree più depresse d’Italia, soprattutto nel centro e nel meridione.

Ultimamente ed in particolare in relazione alla crisi dei grandi poli industriali, si parla di disoccupazione di quarantenni e cinquantenni padri di famiglia, sul cui stipendio grava il peso di interi nuclei familiari spesso composti da madri casalinghe e soprattutto da figli ventenni o addirittura trentenni a carico, disoccupati o inoccupati e alla ricerca disperata di un lavoro.

Il fenomeno dei padri di famiglia in cassa integrazione, in mobilità o disoccupati, è certamente un fatto molto grave, sia per il dramma dei singoli lavoratori che per il carico sociale che si trovano a dover sostenere sulle proprie spalle. La crisi lavorativa di questi quarantenni e cinquantenni è alla base della povertà sociale emergente di alcune delle zone la cui economia maggiormente dipende dai grandi poli industriali. Si pensi ad esempio al Sulcis e alla recente crisi dell’Alcoa, oppure al Sassarese e alle proteste degli operai Vinyls.

Accanto alla crisi lavorativa dei padri, esiste però un più silenzioso problema occupazionale giovanile, che pur potendo per così dire essere “tamponato” nel presente dalle famiglie e dalle pensioni dei nonni, preziosissime nelle aree più depresse, costituisce un grande interrogativo per il futuro di queste zone.

In riferimento ai giovani, alla povertà intesa nel senso comune del termine si aggiunge un altro tipo di povertà, quella formativa. Essa non consiste nella mancanza di un titolo di studio, di cui ormai un gran numero di giovani è in possesso, ma piuttosto nell’incapacità di affacciarsi nel mondo del lavoro conoscendo un mestiere, offrendo una propria professionalità. Le scuole e le università forniscono un titolo, delle conoscenze teoriche, ma raramente degli strumenti che consentano ai ragazzi di proporsi come professionisti, padroni di un preciso mestiere.

Fin dal Rinascimento i giovani venivano avviati ad un mestiere prestando il loro lavoro gratuitamente nelle botteghe degli artigiani. Al termine del periodo di apprendistato acquisivano tutte le conoscenze necessarie per lavorare come fabbri, conciatori, sarti etc.
Anche in Sardegna, fino a qualche decennio fa, i giovani venivano affidati ai cosiddetti maistusu, e sotto la loro guida imparavano un mestiere che certamente gli avrebbe consentito di mettere su famiglia e vivere dignitosamente. C’era su maist’ e linna che insegnava l’arte dell’ intaglio e della lavorazione del legno, su maist’e muru, il muratore, oppure su maistu de pannu, nella cui bottega si imparava a tessere e ricamare.

Qualche anno fa intervistai la signora Chiara Vigo, unica tessitrice del bisso, fibra marina ricavata dalla pinna nobilis, che ama definirsi maistu de pannu. Durante la piacevole chiacchierata con Chiara emerse la sua preoccupazione per la scomparsa dei maistusu, depositari delle conoscenze teoriche e tecniche che caratterizzano i mestieri antichi. Il loro lavoro di trasmissione degli antichi saperi, un tempo fulcro dell’economia sarda, va pian piano scomparendo e con esso si rischia di giungere all’irrimediabile perdita del patrimonio inestimabile costituito dai mestieri tradizionali.

Tra i vari strumenti e misure messi in atto dalla Regione Sardegna per affrontare il problema della povertà e il fenomeno ad essa strettamente legato della disoccupazione giovanile, è stato bandito un interessante avviso pubblico intitolato “Antichi mestieri”.
L’iniziativa, finanziata dal Fondo Sociale Europeo, si propone di valorizzare e recuperare i mestieri tradizionali considerandoli come leva per lo sviluppo locale e il rilancio del territorio.
Inoccupati e disoccupati sardi avranno, grazie ad “Antichi mestieri”, la possibilità di imparare un lavoro qualificato attraverso precisi programmi di formazione che prevederanno importanti momenti di stage presso botteghe e imprese artigiane. Terminato il periodo di formazione i partecipanti avranno l’opportunità di avviare microimprese artigiane.
Gli interessati potranno scegliere tra un ampio ventaglio di figure professionali proposte dal bando: le possibilità spaziano dall’artigianato artistico della ceramica, del ferro e del corallo, alla tessitura tradizionale, dall’artigianato del legno alla lavorazione del sughero, fino alla conduzione del vigneto o dell’oliveto e alla gestione della cantina o del frantoio.

Accanto alle varie misure contingenti messe in atto per affrontare il problema emergente della povertà e della disoccupazione, “Antichi mestieri” sembra proporsi come un’iniziativa strutturale nuova che mira da un lato a recuperare i saperi tradizionali in via di estinzione, di inestimabile valore antropologico e culturale, e dall’altro a combattere l’endemico problema della disoccupazione giovanile, fornendo un’alternativa lavorativa in direzione opposta rispetto alle opportunità balbettanti offerte dai grandi poli industriali.

“Antichi mestieri” suggerisce una chiave di lettura originale del problema “povertà”: forse per sconfiggerla occorre liberarsi dai ricatti imposti dalle grandi multinazionali che giungono nelle nostre terre con promesse di ricchezza e lavoro e poi le tradiscono al primo accenno di crisi degli utili o non appena mancano le sovvenzioni, minacciando di abbandonare tutto e tutti, lasciando dietro di sé un pesante conto sociale ed ecologico.
La via per il riscatto sociale della Sardegna potrebbe forse giungere dalle proprie ricchezze e dalla riscoperta dei saperi radicati nella propria tradizione? Questa pare essere la scommessa di “Antichi mestieri”.

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