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Paolo Fresu
Paolo Fresu

di Paolo Sigura e Ivano Steri

Correva l’anno 2003. Era già arrivato luglio quando Paolo propose a Ivano di andare a vedere il famoso festival jazz di Berchidda, ideato da uno dei talenti musicali più importanti degli ultimi trent’anni, orgoglio della terra sarda, il trombettista Paolo Fresu.

Qualche mese prima si era parlato di viaggio-studio: da buoni storditi quali erano (e sono tuttora, non crediate che l’età gli abbia dato saggezza e tantomeno memoria), si erano accorti del bando un paio di giorni dopo la scadenza, quindi avevano dovuto inevitabilmente rinunciare. Il Festival – l’anno dal suggestivo titolo “Del segno, del suono e della parola” – sembrava loro un buon sostituto, anzi ottimo, data la comune passione per la musica. Proprio in quel periodo, infatti, Ivano e Paolo, pensando ingenuamente di avere un talento nascosto, cominciavano a suonare o, sarebbe meglio dire, tentavano di suonare rispettivamente la tromba e il violino, passioni poi repentinamente abbandonate l’anno successivo visti i risultati deprimenti. Così decisero: treno, campeggio, festival e tutto il contorno, treno di ritorno e a casa soddisfatti.

Arrivò il giorno della partenza. Si sarebbero dovuti incontrare sul treno a metà viaggio. Nessuno dei due perse la coincidenza; e qui per Paolo cominciò una piccola odissea a causa del suo compagno di viaggio, che, afflitto da un improvviso – improvviso? – attacco di logorrea, lo torturò per le rimanenti due ore e mezzo di tragitto. A dirla tutta tormentò tutto il vagone, dove avevano incontrato altri amici. Finalmente qualcuno gridò “Terra, terra”: erano arrivati alla stazione di Berchidda. Un furgoncino sgangherato della squadra locale di calcio, che per caso passava dalle parti della stazione, li portò al campeggio.

Ringraziarono calorosamente, con le mani giunte e inchini vari – l’alternativa era un’irta salita a piedi sotto un sole cocente – e scesero al campeggio. Sbrigate le formalità, iniziarono i problemi seri. Ora, c’è una cosa da dire su di loro. Se presi singolarmente possono anche sembrare due persone serie, messi insieme, dopo al massimo un quarto d’ora, cominciano sinistramente a somigliare a Fantozzi e Filini. Per esempio, ai due bastò uno scambio di sguardi per capire che montare la tenda sarebbe stata un’impresa titanica. Ci provarono, ci riprovarono, tentarono nuovamente, si ostacolarono, tracciarono progetti su carta con tanto di formule ricavate da pallide reminiscenze scolastiche, alla fine tutto si afflosciò per terra (preoccupanti similitudini fantozziane, ecco il primo caso).

Se non gli fossero venuti in soccorso gli amici – in pratica tutto il lavoro di montaggio – avrebbero passato le cinque notti del festival all’aria aperta, ingaggiando una lotta serrata contro le terribili zanzare, facendola magari passare come una scelta stoica, da veri uomini che non temono le bizze della natura. Seguendo puntualmente il manuale delle Giovani Marmotte, poi, decisero di piazzare la loro base nell’unico punto di tutto il campeggio non protetto dagli alberi, dove il sole batteva 24 ore su 24 – anche la notte – e lo fecero nell’estate più calda che la memoria ricordi. Ogni mattina, chiusi nella loro tenda oramai divenuta una sauna, si ritrovavano appiccicati alla specie di sacco a pelo che avevano opportunamente steso per terra per proteggersi (inutilmente) da sassi aguzzi e aghi di pino. Ogni mattina, parole che non è il caso di ricordare (e altri agghiaccianti richiami fantozziani). Ogni mattina, una corsa alle docce comuni con uno di due (Paolo) già avvolto nell’accappatoio seppur ancora vestito – un’eleganza da far invidia alle sfilate di Valentino – e l’altro (Ivano), completamente sudato, con la maglietta fusa col resto del corpo, che malediceva le donne, il tempo e il governo. Lo sguardo schifato delle campeggiatrici fu un altro motivo di abbattimento.

Ma erano lì per il festival, era il loro obiettivo, da grandi appassionati di musica non volevano perdere nemmeno un minuto. Infatti, al grido di “Crepi l’avarizia!”, comprarono l’abbonamento per tutte le serate. E tutte le sere, inevitabilmente, si trovavano a fianco una signora di mezza età che, dopo essersi sperticata in lodi per gli artisti attesi nella serata, ineluttabilmente finiva per cadere in catalessi addormentandosi dopo dieci minuti scarsi di concerto, con tanto di russare e bocca spalancata. Sempre al grido di “Crepi l’avarizia!” le prime due sere decisero di trattarsi bene, di non farsi mancare nulla, e si accomodarono in un’elegante pizzeria, con tanto di sorrisi a trentadue denti alle cameriere e una poco credibile aria intellettualoide. Pizza speciale, birra, caffè, ammazza caffè e dolce: se ne sarebbero pentiti, ah come se ne sarebbero pentiti! Alla fine di quella settimana capirono bene che nessuno dei due sarebbe mai diventato Ministro delle Finanze. Se, infatti, i primi due giorni scialacquarono i danari senza troppi pensieri, dopo una rapida involuzione nella qualità e nella quantità dei cibi si trovarono all’ultimo giorno a dover brucare l’erba per sopravvivere (Paolo), a elemosinare con gli ultimi due euro un mezzo panino (Ivano) e a bere a canna dalla pompa parecchio malsana del campeggio (entrambi).

Tuttavia sono tanti i bei momenti da ricordare: il baretto dove passarono i pomeriggi in compagnia di amici, il “Belvedere” e le lunghe salite per arrivarci, la musica e la festa praticamente ovunque, improbabili incontri, vecchie e nuove amicizie, il sorriso perennemente stampato sulle loro facce, il bellissimo festival (Rita Marcotulli, Stefano Benni, Gianmaria Testa, Paolo Rossi, Elena Ledda, Dhafer Youssef, Eivind Aarset, Umberto Petrin Nguyên Lê e naturalmente Paolo Fresu, tutti di un fiato) e la sensazione di essere leggeri, leggerissimi, a volte fin troppo, come quando, tornando dal “Belvedere”, i due si persero tra i campi coltivati rischiando di essere rincorsi dai cani randagi. Anche in quell’occasione misero in moto tutte le loro infinite risorse: provare a seguire i rumori, la musica, le voci, le stelle (la stella polare indica il nord, no?) e, se non ci fossero stati altri a indicare loro la via, si sarebbero incamminati con tutta probabilità verso l’Estremo Oriente, dando a intendere, pur di non far figuracce, di voler percorrere la via della seta.

Il viaggio di ritorno fu pesantissimo, ma meno comunque di quello d’andata, perché anche il più chiacchierone dei due – occorre ricordare chi? –, stremato dalle fatiche del campeggio, aveva perso tutta la sua verve. Ne era valsa la pena però, non fosse altro per i bellissimi concerti jazz e per lo spettacolo di Paolo Rossi che riuscì, impresa titanica, a tenere desta pure la catalettica signora di mezz’età seduta come di solito al fianco dei nostri due. Per concludere, una comunicazione di servizio: se qualcuno dovesse recarsi a Berchidda e, magari particolarmente assetato, si arrischiasse a piedi lungo l’ardua salita che porta al Museo del Vino, sappia che non troverebbe nemmeno un goccio di vino ma solo attrezzi agricoli e cose del genere. In compenso la notte in questo museo si potrà assistere a piacevoli concerti jazz e non solo, magari sorseggiando l’ottimo Vermentino locale reperibile nelle cantine del paese.

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