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Articolo di Laura Gatto

Escluso, illuso, assunto, usato e gettato, scartato, eliminato, riciclato, nascosto, disperato, colpito e affondato e, nella migliore delle ipotesi, reinventato.

Versatile e poliedrica è oggi la personalità di chi fa di professione il disoccupato. Un mestiere alla moda, con accesso assicurato da tutti i livelli di istruzione e da tutte le facoltà universitarie. Una professione da nord a sud con possibilità di carriera anche se, per la prima volta, con maggiori opportunità professionali nelle zone centro-meridionali rispetto alle settentrionali. E poi dicono che quella mediterranea è una questione meridionale irrisolta!

I professionisti della disoccupazione sono pure specialisti filosofi che più degli altri occupati si interrogano sulla primordiale questione del chi sono e verso dove sto andando. Pensieri profondi, dialoghi interiori sulla propria inutilità personale e sociale.
Maghi del computer interrogato come una sfera di cristallo. Acceso costantemente o ad intermittenza si cerca una risposta, almeno una, ai copiosi curricula inviati. Ma è prassi lavorativa e garanzia di lavoro ben fatto non trovare nulla tra la posta ricevuta. Come si può turbare l’equilibrio psico-fisico e sociale di un professionista della disoccupazione?

Sarebbe destabilizzante per quest’ultimo dover ricevere una risposta anche solo negativa, infatti, è prassi lavorativa prendere in considerazione solo offerte di recupero scolastico o di anni universitari perduti per via del lavoro. Lavoro?!? In effetti un altro diploma o un’altra laurea e, perché no, anche altri master o tirocini formativi non guasterebbero per aumentare le possibilità di carriera ascensionale nel funzionale e logistico criterio di selezione del “prendiamo in considerazione solo esperienze lavorative remunerate”. Ma il disoccupato non ha tempo per questo! Il disoccupato di professione è talmente professionale che remunera di tasca propria le esperienze formative. Non è gratificante lavorare e percepire uno stipendio, preferisce spendere e spandere per una formazione incessante all’insegna dell’educazione permanente. E se poi si tratta di esperienze che non servono a niente o di esperienze lavorative a tutti gli effetti, scherzosamente travestite da master, specializzazioni e tirocini gratuiti, poco importa. Quel che conta davvero è la qualità del percorso.

Quello del disoccupato è un mestiere che sta anche iniziando a tramandarsi da una generazione all’altra, famiglie intere spesso creano studi associati proprio per confrontarsi e lavorare insieme in un lavoro di rete senza eguali. Svegliarsi la mattina e non avere un lavoro è un fattore di coesione sociale da non sottovalutare, ore ed ore di allegro e spensierato scambio e di proficuo confronto sulle mancate risposte alle candidature, sui colloqui andati male, sui concorsi non superati, sui contratti anomali, sulle offerte di lavoro in nero.

L’aspetto economico è niente male. Lauti guadagni a fine mese, con il conto in banca regolarmente in rosso grazie alle uscite superiori al badget mensile spendibile.
Uomini e donne ultramoderni i disoccupati di oggi, flessibili ai cambiamenti e sempre pronti a reinventarsi, pronti a tutti gli usi, in base alle leggi del momento. La resilienza è una marcia in più in questa copiosa classe di professionisti a tutto campo. Contro eventuali circostanze avverse riescono a dare uno slancio alla propria esistenza e in alcuni casi a raggiungere mete importanti quali il lavoro precario e quello in nero. E per non farsi mancare qualche giornata mondana spesso sfilano in cortei di protesta per far garantire i propri diritti.

A qualcuno verrà in mente prima o poi di battersi anche per un albo!

Penso sia tutto, scusate il modo, ma anche questa è resilienza.

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