Kanun_Il_sangue_e_onore
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Rabbia e vendetta
e se non fossi io
già ti avrei infilzato
lì giù per quella vetta
a sputare sangue nero
dal tuo cuore intriso di veleno

(Chiara Inesia Sampaolesi, da Le piume del fato, 2008)

In albanese “vendetta di sangue” si dice “jakmarre”, letteralmente “prendere il sangue”.

Pratica storica della cultura albanese, la vendetta di sangue è praticata in prevalenza tra i cattolici del Nord Albania: un fenomeno che affonda le proprie radici in tempi remoti, come risulta dai documenti storici, tra i quali il più conosciuto è il codice Kanun del principe Lek Dukagjin che si basa sull’onore, sul valore della parola data (la Besa) e la “Gjakmarria”, la vendetta di sangue, quasi un obbligo morale tanto che il rifiuto di vendicarsi era considerato un disonore.

In Albania vige una massima macedone che recita: questa terra “è un luogo dove i secoli non si succedono ma coesistono”, non deve perciò stupire che nei secoli, le usanze codificate dal Kanun siano rimaste immutate e, tramandatesi di generazione in generazione funzionando alla stregua di una Costituzione per oltre 500 anni, regolano ancora oggi i rapporti tra gli abitanti delle montagne del Nord del Paese. Nonostante nel periodo della Dittatura l’antico codice medievale fosse stato “dimenticato”1, dopo la caduta del comunismo, negli anni in cui lo Stato democratico si è mostrato verosimilmente più debole e incapace di garantire l’ordine, le vendette hanno ritrovato vigore e sono tornate prepotentemente in uso.

Per Luigi Mila, segretario generale della Commissione di Giustizia e Pace albanese, “le faide di sangue sono un fenomeno tipico delle società in cui la legge non è abbastanza forte e pertanto la famiglia e i rapporti tra parenti costituiscono la fonte principale dell’autorità”.

Contrariamente a quanto in molti saremmo portati a pensare non si tratta di casi isolati. Non è un caso, infatti, che proprio in questi ultimi anni si è fatta sempre più fitta l’emigrazione dei montanari albanesi che, abbandonati case, stalle e ovili sulle alture della regione settentrionale, sono scesi a valle in cerca di lavoro e di pace. Soprattutto di pace, dal momento che lassù la vita è tutt’altro che idilliaca. L’intero territorio è conteso dalle faide sanguinose di famiglie armate l’una contro l’altra. Dalle montagne del Nord, Dukagjini, Malesia e Madhe, Tropoje, Mirdita e Scutari, scappano tante famiglie verso il centro del paese o all’estero per paura che un membro venga ucciso.

Dopo i disordini del 1997, infatti, con l’assalto alle caserme, tutti gli uomini si sono procurati un’arma da fuoco e ciò ha aggravato la situazione della vendetta. Lo Stato sottovaluta questa pratica e, spesso, gli assassini, dopo essere andati in prigione, vengono uccisi dalla famiglia rivale che non riconosce la legge dello Stato.

Nel Kanun, che ubbidisce alla legge del taglione, si legge: “il sangue deve essere vendicato” e al codice si deve ubbidire. Si calcola, infatti, che una famiglia su quattro ci deve fare i conti anche se vorrebbe disobbedire. Queste cruente vendette nel passato si estendevano, entro le prime 24 ore dall’omicidio, a tutti i maschi imparentati con la famiglia della vittima. Trascorse le prime 24 ore si potevano colpire solo i parenti maschi che abitavano sotto lo stesso tetto del malfattore.
Attualmente, i membri maschi delle famiglie che subiscono vendetta sono costretti a nascondersi sulle montagne o a chiudersi in casa per paura di venire uccisi.

Purtroppo sono raggiunti ovunque e la vendetta arriva2, anche perché il Codice dice: “il disonore non si vendica con compensi, ma con spargimento di sangue o con un perdono generoso, fatto per mezzo di buoni amici”. La famiglia di una vittima è autorizzata dal Kanun a vendicare la morte del proprio congiunto uccidendo qualsiasi parente maschio dell’assassino abbastanza grande da imbracciare un fucile da caccia. L’ unica restrizione è che non è possibile valicare i confini delle mura domestiche.

Il Comitato per la riconciliazione nazionale, organizzazione no-profit albanese, ritiene che da quando le rappresaglie fra clan sono tornate in auge, in ossequio all’antica e cruenta tradizione della faida, siano almeno ventimila le persone intrappolate, quasi diecimila le vittime, almeno settecento le famiglie in o “sotto” vendetta nella zona delle montagne (un centinaio solo nella zona di Scutari) e circa mille i bambini e i ragazzi fino ai diciotto anni che non vivono liberi e che non vanno a scuola. Nel passato anche la loro salute ne ha risentito sensibilmente: il rachitismo e le malattie dell’accrescimento legate alla scarsa esposizione al sole erano molto frequenti.

Le faide famigliari significano povertà e miseria: gli uomini rinchiusi in casa non possono lavorare e intere famiglie si trovano tagliate fuori dalla vita sociale. Ne consegue che i giovani le cui famiglie sono prive di fonte di reddito non possono più frequentare la scuola, curarsi, fare una passeggiata e avere una vita “normale”. Solo pochi privilegiati possono contare sulla presenza di insegnanti privati a domicilio.

Vivere così è peggio che scontare una condanna a vita” si sfogano questi ragazzi la cui unica sfortuna è quella di essere figli di uomini che ne hanno ucciso altri in un’area dove vige ancora l’ antica usanza rituale delle faide di sangue. Sognano di essere liberi, ma non conoscono altra vita che quella trascorsa segregati tra le quattro mura di casa.

Perdono e vendetta sono messi sullo stesso piano, eppure la “riconciliazione” tra le famiglie in questione è molto rara in quanto il perdono è considerato segno di debolezza, di vigliaccheria, di scarso rispetto e considerazione per l’ucciso; il praticarlo attira il giudizio negativo della comunità. Tradizionalmente, un metodo per porre fine alle violenze era quello di deporre davanti all’uscio della casa della persona che doveva vendicarsi un neonato appartenente alla famiglia dell’omicida. Se il neonato veniva accolto nella nuova famiglia la faida terminava se, al contrario, veniva ucciso la spirale di violenza aumentava e si protraeva per altre generazioni

Le cause più comuni di dissidio erano e sono tuttora per lo più generate da contenziosi sulla terra e la proprietà, sebbene a scatenarli siano non di rado futili motivi o affronti di secondaria importanza (litigi sulle donne, oppure un banale litigio al volante finito male). Tutto ruota attorno alle nozioni di orgoglio, ego e onore perduto che può essere lavato soltanto nel sangue.

I sociologi concordano nel sostenere come la faida nelle aree tradizionali dell’Albania sia all’origine del mutamento dei ruoli di genere: sono, infatti, le donne a dover sostentare la famiglia, mentre gli uomini stanno in casa a proteggersi svolgendo contestualmente i lavori domestici. Non è neppure raro imbattersi in donne che si affidano all’ elemosina per sopravvivere dopo aver chiesto invano perdono all’altra famiglia.

La donna è da sempre esclusa da simili spirali di odio: perché considerata appartenente ad un’altra famiglia e perché considerata dal sacro codice “qualcosa di superfluo in famiglia”, che se ne sta quasi sempre chiusa in casa anche se il Kanun non glielo impone e, deprivata com’è di qualsiasi diritto, a differenza del più miserabile dei maschi, non è neanche degna del martirio.

Importanti tracce del Codice hanno coinvolto anche i paesi arbëreshë dell’Italia meridionale. In alcuni omicidi sono state riscontrate similitudini con il modello codificato dal Kanun, come l’abitudine di lavarsi la faccia con il sangue della vittima gridando che giustizia era stata fatta3.

Da circa dieci anni nel Paese delle Aquile, esistono e operano attivamente numerose organizzazioni internazionali presenti in loco con l’obiettivo di dare o restituire una dignità a queste famiglie e soprattutto ai bambini. Tra le più impegnate: il movimento FSHAP che sta per “ragazzi albanesi ambasciatori di pace” e mira ad educare ai valori di solidarietà, perdono e riconciliazione tra le famiglie. I ragazzi del FSHAP, con la collaborazione di educatori di associazioni cristiane e islamiche, tentano di promuovere la riconciliazione tra le famiglie in faida, superando il desiderio di vendetta. Un’altra organizzazione molto impegnata è l’associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII” attiva in Albania dal 1999, che si occupa di educazione, istruzione, reinserimento sociale di fasce emarginate come minori, disabili. Nonostante il grande impegno profuso, tuttavia, sono ancora numerose le regioni dell’Albania settentrionale in cui simili provvedimenti e iniziative faticano a imporsi come un efficace deterrente per frenare le vendette perpetrate per rimediare “all’onore infranto”.

Fonti

Andreoli V., Cronaca dei sentimenti, Ed. BUR, Milano, 2007.

Bilefsky Shkoder D., (Traduzione di Anna Bissanti ), Il codice d’ onore dei sepolti vivi prigionieri delle faide, 11 luglio 2008 – pagina 39 sezione: POLITICA ESTERA, La Repubblica, Copyright New York Times.

Cappelli V., FESTIVAL IL CONFRONTO PASSATO-MODERNITÀ IN «THE FORGIVENESS OF BLOOD» Albania, codice d’ onore e faide Una tragedia commuove Berlino, 19 febbraio 2011- Pag 63, Corriere della Sera

Frate E., Bambini albanesi reclusi in nome del Kanun – 27/06/2009.

Mo E., I bambini perduti d’Albania murati in casa per sfuggire alle faide, 25 settembre 2011.

1 Il dittatore comunista Enver Hoxha cercò di metterle fuorilegge arrivando talora a seppellire i colpevoli vivi nella stessa bara delle vittime (Il codice d’ onore dei sepolti vivi prigionieri delle faide, 11 luglio 2008 — pagina 39 sezione: POLITICA ESTERA La Repubblica).

2 Un migliaio di uomini coinvolti nelle faide sono scappati all’ estero e alcuni hanno presentato richiesta di asilo politico, tuttavia non sono pochi coloro che sono stati inseguiti anche fuori dall’ Albania e uccisi.

3 Esemplare è il caso della strage dei Vardarelli, famosa e temuta banda dedita al brigantaggio. Il vendicatore, Nicola Primiani di Ururi (paese arbereshe), secondo la leggenda popolare, si china sul bandito agonizzante, Gaetano Vardarelli, si lava le mani ed il volto con il suo sangue esclamando: “Morra Gjajkun!” Letteralmente: “ho preso il sangue”, ma anche “l’ho purgata” alludendo all’offesa subita (Frate E., Bambini albanesi reclusi in nome del Kanun – 27/06/2009).

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