Carloforte, si continua il tour per il giorotonno nel Mediterraneo
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La parola “porto” evoca significati, ma non è prerogativa sua solamente, lo è di tutte le parole. E sarebbe divertente scoprire cosa evochi “porto” nella mente di chi pronuncia le poche sillabe. Ma il tempo sa essere tiranno, e non sempre ci soffermiamo troppo nell’analisi della singolo termine. Dovremmo.
Porto per me è mare, viaggio, ritorno, pescatori, vociosa umanità, odore di ricci. Per quanto mi sforzi di ricordare, difficilmente la mia memoria si aggrappa al ricordo di un porto voluto direttamente dai Sardi. Penso ai primi che hanno costellato le nostre coste. Penso ai Fenici, che conobbero il loro periodo di scali costieri stagionali prima, e permanenti poi. Un po’ come i turisti d’oggi, che frequentano l’isola per diversi anni e poi ne vengono catturati. Inevitabilmente.

Porto per me è Carloforte. E penso che bella com’era, il porto poteva essere desiderato solo da chi intendeva visitarla, non dagli abitanti. Ma le cose per Carloforte non sono andate esattamente così. Di abitanti non ce n’erano poi tanti e chi arrivò non intendeva precisamente visitarla. La trovarono insana, abitata da paludi e d’animali piuttosto che da uomini. Correva l’anno 1738, e Carlo Emanuele III, il forte appunto, pensò bene di inviare i Tabarchini, coloni liguri impiantati sulla costa tunisina, là dove di corallo ancora ne esisteva in abbondanza. Sulle coste tunisine s’era già fatto il possibile per inaridire i fondali e i coloni, volenterosi e pronti ad estrarre e lavorare il prezioso materiale, vennero trasferiti in quell’isola piccola 50,42 kmq.

Si tinge di mito la leggenda che narra della nascita del corallo immediatamente dopo morte di Medusa, decapitata. Capace lei di pietrificare con un solo sguardo, il suo sangue seppe pietrificare le alghe che crescevano nei dintorni. Dubito che anche uno solo dei coloni conoscesse la leggenda che Ovidio ci racconta. I problemi erano altri, le malattie, l’isolamento, le paludi da bonificare. Ma si sa che l’uomo è l’animale più adattivo del mondo, e ai Tabarchini non restò che adattarsi, mentre la piccola Carloforte cresceva stretta contro il suo porto, quasi che fosse l’unico baluardo di civiltà contro l’isola feroce, selvaggia, solitaria ma dannatamente bella. Lo pensarono anche i pirati che ripetutamente attaccarono l’isola, facendo scempio della popolazione e utilizzando come scalo porti non convenzionali, ma pur sempre porti. La storia racconta di una incursione tremenda avvenuta nel 1798. Tra grida e pianto, fra rabbia e impotenza furono portati via dalla furia saccheggiatrice ben 900 carlofortini. Cinque anni dopo vennero riscattati, ma la schiavitù raccontano che lasci il segno. I resti delle mura che ancora oggi si possono intravedere in quella fascia abitata, civilizzata, di Carloforte città, sono le cicatrici rimarginate ma mai dimenticate, di tanto dolore sofferto.

Per il resto Carloforte si è comportata come tutte le isole. Ha trattenuto le sue origini come se si trattasse della sua stessa essenza, e ancora oggi è un’isola linguistica ligure, e dell’antico dialetto di Tabarka resta più che il ricordo. Amano farsi chiamare Tabarchini, e si riconoscono ancora con quella etnia. E quella che un tempo era necessità di sopravvivenza e che oggi è tradizione, ha legato l’isola alla pesca, ai suoi porti. Lascia sbalorditi e dubbiosi, soprattutto chi come me, non ha sempre immediatamente un’opinione su tutto, la sopravvivenza della coriacea Tonnara. Ci sono davvero pochi ruoli da interpretare. Protagonista il tonno, il corridore del mare, dai colori accattivanti, dalle dimensioni sbalorditive. Antagonista l’uomo, il predatore. Lotta antica, non sempre equa, ma questione di sopravvivenza.

I tonni vengono fatti crescere, incanalati e catturati. Solo i più grandi, solo i più belli. Rais e tonnarotti espongono il trofeo. Ma non si tratta di spettacolo, seppure suspanse ed eccitazione c’è tutta, e da qualche anno non manca neppure il pubblico. Rassicura pensare che del tonno, i carlofortini non buttino proprio niente. Perfino gli scarti della lavorazione del tonno, quelli che a rigor di logica si dovrebbero buttare, vengono selezionati e inscatolati. Il prodotto prende il nome di buzzonaglia, e oserei dire, risulta più saporito del tonno stesso. Ma i gusti sono gusti, e su quelli non si discute. E’ in occasione della Tonnara che il porto di Carloforte si risveglia, quasi si preparasse all’estate che ogni anno precisa e puntuale, incombe. E diventa, il porto, veicolo di incontri e confluenze in quella manifestazione che oramai ha assunto carattere internazionale e che tutti conosciamo come il Girotonno. L’evento conosce il suo avvio nei primi giorni di Giugno, e l’isolotto è caricato dal peso di più di 40 000 turisti, mentre le capacità del porto vengono davvero messe a dura prova. Sfizzierie culinarie, meraviglie gastronomiche, degustazioni, incontri, chef e musica, tra sapori e odori indimenticabili.

ll turista è concesso di degustare il tonno, così come solo i carlofortini sanno cucinarlo, ma c’è di più. Il palato verrà stimolato seduti sulle mille panchine che si affacciano sul porto, colorato, allegro, cuore che batte e in quei giorni, dovremmo dirlo, freneticamente. E mentre si assapora l’essenza di quel tonno, ad arte evidenziata dai cuochi, pochi penseranno d’essere seduti sul cardine intorno al quale la storia di una città si è evoluta, intorno al quale le lacrime hanno seguito il riso, intorno al quale gli eventi sono diventati storia. Chissà se qualcuno, usando la parola “porto” immagini che in fondo non significhi altro che vita.

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