Nuoro negli occhi di Grazia Deledda
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Alcuni paesaggi capita si lascino assorbire con gli occhi, regalando di sé un ricordo che non scolorisce con il tempo, che si lega agli odori, che si affeziona ai sapori, che si stringe al momento trascorso.
Poi ci sono i paesaggi che si lasciano leggere, che non accarezzano le guance con venti caldi, che non odorano di timo e di lentischio, ma che piuttosto stimolano il pensiero e aguzzano la fantasia. Sono le parole, quelle scritte, a prendere per mano il viaggiatore e condurlo in un mondo solitario, silenzioso, quasi di sogno.

E’ lì che ancora vive l’antica Atene Sarda, Nuoro. Nel 1871 ci nacque Grazia Deledda, e la sua città, esattamente come lei la visse, rimane a tutt’oggi impigliata nelle sue parole, nei suoi racconti, nei suoi romanzi, che dicono di una Sardegna ricca, varia, bella, di una Sardegna del ricordo.
A noi oggi la possibilità di scoprirla attraverso passi propri o parole altrui, per altro uno dei modi più belli di vivere i paesaggi. Personalmente ho scoperto Nuoro ed i suoi dintorni molto prima di riscoprire la più grande scrittrice di Sardegna, e forse per questo, ritrovare la cittadina nelle sue parole ancora intonsa, pulita, essenzialmente sé stessa, mi ha impressionata tanto da regalarmi idea di una Nuoro per gli occhi e di una Nuoro per il cuore.
Non lo nego, somiglia a tante altre città isolane, per lo meno fin tanto che non ci si intrufola in quelle stradine che conducono nel suo cuore storico.

La prima volta che la vidi, ricordo d’aver pensato che si trattasse d’un paese in miniatura, con quegli stretti sentieri lastricati di pietra lucida, con quelle piccole porticciule dalle quali fuoriuscivano, come fumo scuro, anziane donne vestite di nero, con quelle botteguzze dimore dei maestri del legno, del ferro, del panno.
S’amarono Nuoro e Grazia, per quanto si siano a lungo ostacolate e per lungo tempo allontanate. E’ per questo forse che nel suo centro antico si respira di lei, di Grazia, quasi che il premio Nobel non l’abbia mai abbandonata, quasi che il tempo non sia trascorso.

Fu un’ossessione per la scrittrice che visse oltre mare quella di dire della sua città, della sua isola, quasi che scrivendone potesse ricrearne una tutta per sé, nella quale rifugiarsi.
E’ proprio come dice Grazia Deledda, l’aspetto del paese ancora oggi è di grosso villaggio, l’aria è fina, la temperatura è fresca. L’interno del paese è di una primitività più che medievale, con strade strette e mal lastricate, casupole di granito con scalette esterne, cortiletti, pergolati.

E pare che, percorrendola, ogni strada conduca a quello che oggi è Museo e ieri dimora di nuoresi a bene, casa patriarcale semplice, piccola eppure completa.
E’ bella ad osservarla quella casa dai muri spessi e candidi, ma più bello ancora è seguire le tracce della sua prima abitante. Grazia Deledda la descrisse nel suo ultimo romanzo, pubblicato postumo, per altro non accontentandosi di dare una precisa descrizione della sua dimora; fece di più, raccontò di tutta una vita, della sua, perché spesso a scrivere dei paesaggi li si può rivivere, e la scrittrice anziana li ricordava con una precisione sorprendente.

La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina.

E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità. C’era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra.

La porta dava sul cortile triangolare, piuttosto lungo e occupato quasi a metà da una rustica tettoia dalla quale, per un usciolino, si andava nell’orto. In fondo c’era il pozzo, e sotto il muro alto di cinta, una catasta di legna da ardere, rifugio di numerosi gatti e delle galline che vi nascondevano il nido delle uova.

E’ il paesaggio più bello quello della cucina che da idea di una trepidante attività, di un calore familiare e dell’orticciolo, d’un verde brillante, segnato da un basso muretto a secco, che resta nelle parole di ieri esattamente identico alla realtà di oggi.

E poi Nuoro è l’inconsolabile e selvatico, solitario ed essenziale Orthobene che si confonde nel ricordo della scrittrice in esilio, prendendo forma di parola, e di paesaggio dal fascino selvaggio.
L’Orthobene era tutto un incanto di rocce, di boschi e di radure… il sentiero che là conduceva, insinuavasi nel bosco, rasentava precipizi, chine coperte d’erba bionda, scendeva e saliva per scalinate, antri, archi di granito. Il musco copriva i tronchi e le pietra. L’edera sugli alti crepacci abbandonava i suoi ciuffi alle carezze del vento.

Tutto vero e l’Orthobene che fa da scenario al “Vecchio della montagna”, è esattamente quello che ancora oggi profuma di muschio, in cima al quale si potrà ammirare la statua del Redentore, con il suo pollice lucido, che si dice, a sfregarlo per bene la fortuna non potrà esentarsi dal farci visita.
Frammenti di un piccolo paese diventato città, che non abbandona i suoi paesaggi ostinatamente sardi. Li si potrà percorrere facilmente sull’onda delle parole o durante una romantica visita nel cuore dell’isola che merita, non mi stancherò di raccontarlo, d’essere scoperta.

Capita delle volte che alcuni paesaggi prendano forma nelle parole e che fra il verde, il profumo, il vento ed il sole si scorga l’essenza di chi li abbia tanto amati da pitturarli su carta nell’unico modo che sapeva, con la scrittura.

Bibliografia

Deledda G., 1901.Tipi e paesaggi sardi. Direzione della Nuova Antologia. Roma
Deledda G., 2005. Cosima. Ilisso Edizioni. Nuoro
Deledda G., 1912. Il vecchio della montagna. Fratelli Treves. Milano

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