Non c'è niente da ridere
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di Carla Dotzo

Nel mio quartiere c’era Veneranda. Viveva nell’ex manicomio di Cagliari “Villa Clara”, e girava con giacche di due taglie più grandi e mai un capo di abbigliamento abbinato ad un altro. Il mio immaginario di bambina era molto colpito da quel coacervo di colori che bisticciavano fra loro, e ogni parola che usciva dalla bocca di quella strana creatura era per me oggetto di grande interesse. A volte si fermava a parlare coi passanti, altre rivolgeva loro uno sguardo pieno di rabbia silenziosa e si allontanava mugugnando frasi indecifrabili. Mi faceva un po’ paura ma intuivo che non era pericolosa dall’atteggiamento che gli adulti tenevano con lei, al contempo condiscendente e divertito. Spesso, non appena Veneranda si girava, li vedevo scambiarsi sguardi complici con l’angolo del labbro sollevato, pronti ad abbozzare un sorriso. “E’ matta, poveretta.” – Mi dissero i miei genitori quando chiesi perché mi fissava nervosa.

E io sono cresciuta nella convinzione che matti si nascesse e non si diventasse; che i matti potessero essere, sì, più o meno matti, ma che tutti appartenessero alla stessa categoria; trattandosi, poi, secondo me, di cosa congenita, niente del genere sarebbe mai potuto succedere né a me né alle persone che amavo. E questo mi bastava, per non preoccuparmi o intristirmi. Sono passati alcuni lustri e la mia idea sul problema della malattia mentale con la crescita è naturalmente cambiata. Si è affinata, ammorbidita, è diventata più aderente al reale. Ma la convinzione razionale e scientifica per cui i mali meritano identico rispetto qualunque sia la parte della persona ad esserne affetta evidentemente non riusciva a coinvolgere la sfera emotiva.

Non capirei, sennò, il terrore covatomi dentro quando otto anni fa la mia amica B., compagna da sempre di ansie, cazzate e confidenze, ha iniziato a deperire fisicamente e incupirsi psicologicamente. B. girava tutti gli specialisti della città, ma nessuno sembrava intuire la radice dei suoi disturbi e visita dopo visita i suoi occhi si spegnevano progressivamente. Tutti i referti medici erano negativi, e quegli stessi risultati che inizialmente ci sembravano rassicuranti col tempo diventavano sentenze angoscianti, dal momento che ci condannavano ad un’impotente incertezza, mentre B. continuava a deperire. L’ultimo medico consultato, con aria distesa, le disse solo:”Lei ha tirato troppo la corda.”

Fra lavoro incerto, amicizie meno salde delle apparenze, un modulo di vita schematico e scandito da gesti costanti ormai privi di significato, B. si era lasciata cullare su una stasi infelice che la stava conducendo ad un torpore muto e privo di reazioni. Lei che in genere era una giocherellona: rompiscatole e testarda come un mulo ma sempre sorridente, e non solo nell’aspetto. Vedere che l’espressione del viso non cambiava qualunque cosa le raccontassimo e che parlava di morte con una dolcezza preoccupante e come un epilogo alle sofferenze che provava ci riempiva di dispiacere ma non ci terrorizzava come quando B. iniziò a fare affermazioni sconclusionate, annichilita com’era dall’angoscia. Una mattina andammo insieme per uffici a sbrigare piccole commissioni. A volte la passavo a prendere per farla muovere, nonostante il caldo torrido non fosse certo un toccasana. Provavo a regalarle un po’ di normalità. Al rientro a casa si lasciò cadere nel letto, sfinita, e prese in mano un giornaletto di “Topolino” del fratello piccolo. Dopo qualche secondo cominciò a stringere forte i denti e a corrugare le sopracciglia, spaventatissima. Mollò bruscamente il giornale e chiuse gli occhi. Non riusciva ad andare avanti -mi disse- perché Paperino e tutta la banda di Paperopoli la fissavano con atteggiamento aggressivo e le sembrava volessero farle del male.

Da quel giorno B. ha combattuto con specialisti e farmaci. Inizialmente le cure, quelle di nuova generazione, meno pericolose delle più conosciute perché meno invasive, le hanno provocato un’accentuazione del malessere: settimane senza mangiare, sei giorni continuativi senza dormire un solo minuto, gli occhi sgranati e più impauriti di sempre. Poi, però, l’hanno fatta guarire.
(Iniziato come una distimia unita a disturbi ansiosi, progressivamente il disturbo si era appesantito e aggravato e l’ansia aveva lasciato spazio all’angoscia). Oggi segue una terapia di mantenimento, ma nessuno potrebbe mai intuire cosa ha passato. E’ tornata sorridente, e non solo d’aspetto. Mangia a quattro ganasce e parla di quel periodo come di un episodio passato, superato. Ma di cui coltivare il ricordo: per ricordarsi di non tirare troppo la corda, di non esigere troppo da se stessa, dagli altri, dai rapporti, dalla vita.

Quando penso a Veneranda mi chiedo in quale momento Paperino abbia iniziato a farle paura. Se sarà stata troppo stanca, o delusa, o frustrata dagli insuccessi, o semplicemente poco amata, quando i fantasmi interiori hanno indossato maschere terrorizzanti. E mi chiedo quanto avranno avuto paura i genitori, il fidanzato, la sua amica di sempre. Mi dico che è stata davvero sfortunata a non nascere qualche decennio dopo, per i medici e le terapie. Purtroppo non per i pregiudizi, che vedo ancora vivi e duri come l’acciaio. Troppo adulti, ancora, sollevano gli angoli della bocca abbozzando un sorriso quando vedono chi ha avuto meno fortuna e forza di B.

Eppure non c’è proprio niente da ridere.

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