Certosa di San Martino
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Napoli vista dalla spianata della Certosa di San Martino –una delle massime espressioni del Barocco locale- offre uno spettacolo di sé da levare il respiro. L’intera città, un’immensa scalinata che, come lava in forma di arco semiellittico, scende dalle colline al mare, si dispiega ai piedi di chi, affascinato, l’ammira. Solo la massiccia forma stellare in tufo giallo -lo stesso su cui sorge la città- del Castel Sant’Elmo che si staglia contro il cielo sovrasta il tutto dalla sua estrema posizione sulla collina più alta di Napoli, quella del Vomero. Tra chi guarda e le costruzioni sottostanti si frappongono terrazze antiche che, degradanti lungo il fianco della collina e tuttora coltivate a vite ed altre colture mediterranee, ricordano l’estrema fecondità di questo territorio che i Romani definirono, a ragione, Campania felix.

L’estrema bellezza che circonda e pervade chi si affaccia su Napoli conquista creando il desiderio di immergersi in essa, di divenirne parte, di perdersi in quell’incredibile intrico di strade che si indovinano dall’alto, di percorrere quella lunga linea che si staglia, nitida, ai piedi della collina fino alla Stazione Centrale, tagliando di netto, da Nord a Sud, il tessuto urbano: Spaccanapoli, l’antico decumano inferiore (quello più vicino al mare) della città greco-romana.

Già dall’alto, si percepiscono le caratteristiche distintive del cuore di questa città millenaria che ha saputo rispecchiare nella sua struttura architettonica la situazione ambientale in cui è costruita. Nel 1924,Walter Benjamin definì l’architettura partenopea “porosa” come il tufo su cui la città sorge, quel tufo giallo caotico detto anche napoletano, caratterizzato dalla notevole presenza di valloni, ampie conche e cavità naturali che, in effetti, ritroviamo sotto forma di infinite “aperture” (archi, finestre, loggiati, cortili, spianate, belvederi) presenti in quasi tutte le costruzioni locali. “Costruzione e azione si compenetrano in cortili, arcate e scale” continua il filosofo nei suoi scritti: il verde, infatti, della rigogliosa vegetazione che da sempre ha distinto questa fertilissima terra lavica si riflette nei lussureggianti e infiniti cortili dei tanti palazzi gentilizi come pure negli altrettanto numerosi chiostri di chiese e conventi di cui la città è piena. Gli archi, poi, ricordo di quello del golfo, sono ovunque così come le scale: salite, rampe, “calate” uniscono i vari punti della città posti su livelli diversi e caratterizzano l’accesso ai luoghi di culto non solo per simbolica aspirazione alla spiritualità, ma anche per riflettere quelle terrazze su cui sia la vegetazione circostante che il costruito sono distribuiti per raggiungere il mare dalle colline. Roberto Murolo, del resto, non cantava, in una tipica melodia partenopea degli anni ’50: “Scalinatella longa, longa, longa, longa…saglie ‘ncielo o scinne a mare”?

Andare a zonzo, quasi senza una meta precisa, con la lentezza tipica del flâneur di Beaudelaire o Benjiamin per la città antica, alla ricerca un po’ pigra, ma attenta, di questi topoi architettonici, è l’atteggiamento giusto che tanto bene si addice alla realtà napoletana nonché un modo diverso di avvicinarsi, scoprire e conoscere Napoli.

Salita della Pedementina
Salita della Pedementina

Incominciando la nostra passeggiata dal piazzale della Certosa, si può andare incontro alla città discendendo le ampie rampe della Salita della Pedamentina che, quasi una continuazione collinare di Spaccanapoli, tra case, orti, giardini e splendide vedute sulla baia mette in comunicazione, con i suoi 414 larghi scalini, San Martino con Corso Vittorio Emanuele, posto a metà collina. Da lì, altre scale, quelle di Montesanto, più strette e ripide, portano all’omonima piazza, ai piedi del colle, capolinea di due glorie cittadine: la Funicolare e la ferrovia Cumana. Qui, fino al 1873, sorgeva la Porta Medina (Porta Pertuso –buco- per i napoletani), un arco aperto nelle mura cittadine nel 1640, forse ad opera dell’architetto Cosimo Fanzago, per permettere l’accesso al centro a chi proveniva dalle alture. Nei pressi dell’antica porta, sorge la chiesa di Santa Maria del Rosario a Portamedina, che assunse l’attuale aspetto dopo i restauri del 1742 che la resero un interessante esempio del tardo Barocco locale. La caratteristica facciata, un portico a pianta semiesagonale sorretto da tre archi a tutto sesto, si insinua perfettamente nell’intenso tessuto urbanistico del luogo. Archi sono altresì presenti nel chiostro: un quadrato ornato da tre arcate per ciascun lato.

Siamo nel cuore dei Quartieri Spagnoli, in pieno centro di Napoli, a ridosso della Via Toledo che ne è una delle arterie principali. Ed è proprio al viceré Pedro de Toledo, a seguito dell’espansione urbana da lui voluta nel 1536, che si devono sia la strada (che con più di due chilometri di lunghezza non ha conosciuto, per secoli, rivali in Europa) che “i quartieri”, edificati per accogliere le guarnigioni militari spagnole.

Tristemente famosi in passato per il degrado e la criminalità che, dal XVI secolo, li ha contraddistinti e per i più recenti cedimenti del suolo, i Quartieri Spagnoli sono tuttora una parte della città ad altissima densità abitativa, caratterizzata dalla tipica struttura del “basso” (‘o vascio in napoletano), piccola abitazione posta al pian terreno di massimo due vani da cui, molto spesso, botole immettono nella Napoli sotterranea, ricca di resti greco-romani e addirittura preistorici. Se tutto ciò è noto, sicuramente molto meno conosciuto è l’incredibile tesoro di arte e architettura che le strette e ripide strade in salita dei ”quartieri” nascondono e che si rivela, improvviso, solo a chi desidera esplorare la zona zizagando in piena libertà tra la fitta presenza umana e costruita.

A pochi passi da Piazza Montesanto, ci appare l’imponente mole della cinquecentesca chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini, la cui facciata (1792-96) di Carlo Vanvitelli, figlio di quel Luigi che realizzò la Reggia di Caserta, presenta due grandi nicchie ad arco in una della quali è la statua di San Gennaro, patrono di Napoli. La chiesa, che prospetta sul cortile dell’omonimo ospedale –presenza fondamentale nella realtà del quartiere- è preceduta da una doppia scalinata in piperno (elemento fondamentale dell’immagine e del tessuto urbano di Napoli; la pietra di colore grigio scuro ha conferito, in associazione con il già citato tufo giallo, un’impronta inconfondibile alla città nel corso dei secoli) ed ha un interno dalla pianta non usuale: due ottagoni –uno in funzione di navata e l’altro, dietro l’altare maggiore, di oratorio- uniti dal presbiterio di perfetta forma rettangolare.

Poco più in là, sempre un arco, roccocò (come gli elaborati dolci della tradizione partenopea), alto ed elaborato, disegnato in pietra sulla facciata, immette nella chiesa di Santa Maria della Concezione a Montecalvario, anch’essa ad impianto ottagonale, capolavoro di Domenico Antonio Vaccaro, massimo architetto del ‘700 napoletano, autore anche del bellissimo altare maggiore in marmo adornato da splendidi stucchi. La complessa struttura che incanta per la ricchezza e l’estrema varietà delle sue forme architettoniche nella quali lo sguardo indugia e si perde, è una dei massimi esempi della Napoli barocca del XVIII secolo. La chiesa era parte di un complesso, collegio e chiostro, esistenti già dal XVI secolo, purtroppo distrutti nel 1928 per erigere una scuola e un edificio dell’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, esempio emblematico degli immani, scellerati e periodici abbattimenti del ricchissimo patrimonio architettonico a cui sono stati sottoposti i Quartieri Spagnoli negli anni. In questi, è andata perduta, ad esempio, la imponente e stupenda scalinata monumentale con portico a cinque arcate della chiesa di Santa Maria della Mercede a Montecalvario, costruita nel XVII secolo e, purtroppo, sostituita nell’’800 da un’anonima scala circondata da botteghe.

Rimane invece, in tutta la sua bellezza, la scalinata curvilinea della SS. Trinità delle Monache, opera di Cosimo Fanzago, nobile esempio da cui sono state tratte altre scalinate di edifici cittadini andate distrutte. La chiesa fa parte del complesso omonimo, eretto nel XVII secolo e danneggiato nel corso degli anni nel suo impianto a causa di vari interventi, di ben 25.000 mq. di cui ben 16.000 adibiti ad aree verdi e cortili.

Innumerevoli, in tutta Napoli, e in questa zona in particolare, erano i conventi e i monasteri, fondati, quasi sempre, da pie donne della nobiltà o dell’alta borghesia locale che hanno fortemente influenzato la struttura urbanistica di tutto il quartiere. In essi, stuoli di monache (tra cui Santa Maria Francesca delle cinque piaghe –al secolo Anna Maria Rosa Nicoletta Gallo- detta la santa dei Quartieri spagnoli e patrona, insieme a San Gennaro della città) si occupavano di opere di carità facendo a gara a chi producesse i dolci più buoni: sfogliate e sfogliatelle nonché varie squisitezze rotondeggianti, ricoperte da glasse dai delicati colori, tipici del ‘700, e ornate al centro dall’immancabile ciliegia rossa candita che ancora occupano i banconi delle pasticcerie napoletane.

Ma i Quartieri Spagnoli non furono solo luogo di forte religiosità, ma anche residenza di una rivoluzionaria, eroina della breve Repubblica napoletana, proclamata, su esempio giacobino, nel 1799: Eleonora Pimentel de Fonseca. Donna di grande cultura, dapprima bibliotecaria e amica della regina “illuminata” Maria Carolina, dopo la fondazione del giornale ufficiale della Repubblica, il “Monitore Napoletano”, salì le scale del patibolo per lei allestito il 20 agosto 1799 in Piazza Mercato dove era stato giustiziato anche Corradino di Svevia e da dove era partita la rivolta di Masaniello.

Come il palazzo abitato dalla de Fonseca, così altre importanti magioni patrizie facevano parte, insieme alle costruzioni religiose, delle architettura dei Quartieri Spagnoli. Carlo Celano, un religioso avvocato e letterato che redasse nel XVII secolo un accurato censimento di tutti i monumenti di Napoli, parla del palazzo Spinelli di Tarsia, che troviamo sulla via omonima che percorriamo per raggiungere la zona dei Decumani, come di uno dei più vasti, complessi e sontuosi palazzi principeschi di Napoli. Attualmente prospiciente su una piazzetta (l’ex cortile esterno del palazzo stesso)era talmente grande da aver dato origine a un piccolo quartiere. Il progetto della struttura fu affidato a Domenico Antonio Vaccaro nei primi trenta anni del ‘700. I disegni che il noto architetto ci ha lasciato mostrano un fastoso ingresso ad arco seguito da due scenografiche rampe a tenaglia per le carrozze e i cavalli e una scalinata centrale che, circondate da giardini che intendevano rifarsi a quelli pensili di Babilonia, immettevano nel primo corpo di fabbrica ad arcate da cui si passava nell’ampio cortile rettangolare maiolicato e con statue in fondo al quale sorgeva il maestoso palazzo a due piani. Gravemente degradato, conserva tuttora, quasi integro, il grande cortile chiuso da un emiciclo su cui si sviluppa un‘enorme terrazza belvedere.

La Via di Tarsia conduce a Via Toledo; all’incrocio tra le due strade sorgeva il grande arco della Porta Reale, abbattuto nel 1775. L’ampia e animata Piazza Dante che si spalanca davanti a noi, ornata da aiuole con palme, ospita l’imponente emiciclo del Foro Carolino, disegnato da Luigi Vanvitelli per celebrare le virtù di Carlo III, la cui statua equestre, mai eseguita, doveva essere ospitata nell’immensa nicchia ad arco posta al centro della struttura.

Già sulla piazza, numerose librerie fanno da preludio a quelle, storiche, poste sotto il grande arco di Port’Alba, che si apre sulla sinistra del Foro Carolino, e lungo la via omonima. L’aria che si respira è di grande stimolo intellettuale: non c’è libro, antico o moderno, che non possa essere trovato in questa zona, affollatissima di studenti e bibliofili che continua, sulla sinistra, con altre librerie antiquarie sulla monumentale Via S. Maria di Costantinopoli. La strada è ricca di palazzi e conventi come quello di San Giovanni Battista delle Monache (famoso per i suoi sei chiostri e sei belvedere andati tutti distrutti) di cui resta solo la chiesa omonima, annunciata da scalinata e portico a tre arcate che fa da contraltare a quello, posto sul lato opposto della strada, della chiesa di Santa Maria della Sapienza il cui annesso monastero è stato demolito nel XIX secolo per fare posto al Policlinico.

Di forma rettangolare, con lussureggianti piante al centro, sedili pubblici stranamente imbottiti e ricoperti con tessuti da tappezzeria, resti tufacei di mura greche del IV secolo a. C., magnifici palazzi e locali di ogni genere: questa è Piazza Bellini, che si apre alla fine di Via di Port’Alba. Prediletta dai giovani che nei pressi studiano nelle sedi di varie facoltà universitarie o dell’Accademia di Belle Arti o del Conservatorio di San Pietro a Maiella, la piazza presenta sulla sinistra e alla sommità della scalinata del Convento di Sant’Antonio delle Monache a Port’Alba, la Biblioteca Umanistica dell’Università Federico II e la Galleria d’Arte Moderna dove si possono ammirare molti, incantati paesaggi ottocenteschi napoletani, dipinti dai rappresentanti della così detta Scuola di Posillipo: Giacinto Gigante, Gabriele Smargiassi, Consalvo Carelli.

Da Piazza Bellini, dopo essere passati, sulla destra, davanti al Conservatorio di Musica, uno dei più illustri d’Italia, con i suoi due chiostri ed aver attraversato Piazza Miraglia (dove è l’ingresso del Policlinico che traslocherà a breve per fare spazio al Parco Archeologico dell’Acropoli di Neapolis) si imbocca Via dei Tribunali, corrispondente al decumano centrale della Napoli greco-romana, parallela a Via San Biagio dei Librai, la Spaccanapoli che abbiamo ammirato dalle alture di San Martino. Le due arterie, animatissime, vero cuore pulsante della città, conducono entrambe alla magnifica Porta Capuana, antico accesso al centro per chi proveniva da Oriente, e, di là, all’attuale Stazione Centrale, punto nevralgico per chi arriva o parte da Napoli.

Tra le due guerre mondiali, nella zona di Porta Capuana (così chiamata perché sorge nella direzione dell’antica Capua) un attico divenne luogo di grande fermento artistico e culturale al punto di essere soprannominato, sull’esempio di Parigi, capitale indiscussa, all’epoca, dell’arte e della cultura mondiale, Quartiere Latino. Fu il pittore Giuseppe Uva a proporre l’idea di trasformare il loggiato dell’ultimo piano di un palazzo di via Rosaroll in tanti studi d’artista dove lui e Alberto Buonoconto, Biagio Mercadante, Vincenzo Ciardo, Carlo Striccoli, Giuseppe Rispoli, Antonio Bresciani, Ettore Lalli e Paolo Prisciandaro (fondatore della rivista “Quartiere Latino”), dopo aver percorso 126 gradini, potevano dipingere tutti insieme, con rinnovato spirito bohèmien, i tetti di Napoli che da quella altezza riempivano la loro vista.

Tra la Porta Capuana e la Via Rosaroli, è visibile, sull’omonima strada, la superba, scenografica scalinata a doppia rampa a tenaglia in piperno, opera di Ferdinando Sanfelice (1707/8), che conduce alla trecentesca chiesa di San Giovanni a Carbonara, gloria e vanto, pur se quasi interamente distrutta, dell’arte e dell’architettura napoletana. Un altrettanto splendido scalone marmoreo, sempre a doppia rampa a tenaglia (forse memore del precedente realizzato dal Sanfelice), realizzato da Giuseppe Astarita, dà accesso al sopraelevato presbiterio della settecentesca chiesa di Sant’Anna a Capuana sull’omonima piazza, alla sinistra della Porta.

La ricchezza artistica e architettonica della zona dei Decumani è indicibile. Qui si ritrovano, ripetute all’infinito, quelle caratteristiche architettoniche che hanno informato tutto il nostro percorso. La zona in cui siamo è quella del celebre chiostro maiolicato di Domenico Antonio Vaccaro della Basilica di Santa Chiara (“Munasterio ‘e Santa Chiara” è la celebre canzone, scritta nel 1945, che ricorda i danni subiti dalla chiesa e dalla città di Napoli durante la Seconda guerra mondiale) dell’altrettanto famosa Chiesa del Gesù Nuovo. Ma in questa zona le scale, gli archi, i chiostri e i cortili sono, se possibile, anche più numerosi che nei Quartieri Spagnoli. Su Spaccanapoli, ad esempio, a pochi passi dalla scenografica Piazza S. Domenico Maggiore, dominata dalla scalea che porta all’ingresso absidale dell’omonima chiesa, sorge il quattrocentesco Palazzo Venezia nel cui cortile, la struttura a tre archi, di cui quello centrale segna l’ingresso e quelli laterali l’accesso alle scuderie, si ripete nei quattro piani superiori, facendo intravedere, come nelle architetture di Ferdinando Sanfelice, le scale interne del palazzo. Un giardino pensile, rigoglioso di piante mediterranee, completa lo scenografico ingresso. Altrettanto notevole, e sempre arricchito da arcate, è il vicino cortile ovale in stile Roccocò del Palazzo Carafa della Spina. Arcate sono presenti anche in quelle particolari strutture dette Sedili, dove nel Medioevo, si riunivano i rappresentanti della famiglie nobili per svolgere mansioni amministrative, giuridiche e giudiziarie. Su Via dei Tribunali incontriamo il Sedile di Montagna, riconoscibile dalla tipica pianta quadrata con arcate su ciascun lato e cupola. Innumerevoli, poi, sono i chiostri tra cui quelli dei SS. Marcellino e Festo che si aprono verso il mare mostrando aspetti caratterizzanti della tipologia conventuale contro riformata napoletana e dei SS. Severino e Sossio. Imperdibile è la visita al chiostro della Chiesa di San Gregorio Armeno, sull’omonima strada, nota per la produzione e la vendita di personaggi e arredi per i presepi. Annunciato da una lunga, scenografica scalea dalle pareti, una volta, completamente affrescate, lo stupendo spazio verde si apre su aiuole ricolme di alberi di agrumi tra le quali, centrale, campeggia una fontana marmorea settecentesca con statue rappresentanti l’incontro al pozzo di Gesù e la Samaritana. Il superbo incontro tra arte, architettura e natura, più laico che spirituale e così tipico dei chiostri napoletani qui raggiunge dimensioni scenografiche eccelse, grazie anche all’incredibile ottimo stato di conservazione del luogo, così raro da riscontrare nelle opere d’arte locali.

“Napoli: o si ama o odia. Non ci sono vie di mezzo” affermano gli stessi napoletani. E, in effetti, nei secoli, la città ha suscitato i sentimenti più contrastanti che l’hanno resa famosa e non le hanno mai permesso di passare inosservata. Difficile è pensare, parlare o descrivere Napoli senza cadere in uno dei tanti stereotipi –belli o brutti che siano- che, da secoli ormai, sembrano perseguitarla anche nei racconti dei suoi cittadini. Nessuna città al mondo, infatti, è stata così tanto bersagliata dai luoghi comuni da rendere quasi impossibile per chi la visiti il farsene un’idea propria, avulsa da preconcetti. È vero, dopo gli splendori conosciuti fino al XIX secolo e dopo seicento anni in cui la città è stata la capitale di tutto il Meridione d’Italia, Napoli ha conosciuto un decadimento dal quale, a causa anche delle immani distruzioni dovute non solo alla Seconda guerra mondiale e al terremoto del 1980, ancora non riesce a riprendersi malgrado gli sforzi in atto, da anni, per risollevarla. Possibile, però, che non si riesca a guardare a questa città, al suo patrimonio artistico e architettonico –immenso- senza che, inevitabilmente, il dato sociologico/antropologico prenda il sopravvento? Qualunque altra città al mondo, nell’immaginario collettivo, risulta legata ai suoi monumenti antichi o moderni, ai suoi palazzi e costruzioni di ogni genere; Napoli, invece, non riesce a staccarsi dal suo popolo, dal suo ambiente, dal suo territorio, dalla sua gente. La forza di questi ultimi è tale da far del tutto dimenticare che essa è stata (ed è) una delle più antiche e importanti capitali del Mediterraneo, talmente bella nella sua architettura che Carlo III di Borbone quando, nel 1759, ne lasciò il regno per divenire re di Spagna la prese ad esempio per edificare la sua nuova capitale: Madrid.

Certo esiste più di una Napoli: c’è la città, maestosa, che si stende lungo il mare, quel grande, stupendo, golfo lungo il quale corre la famosa via Caracciolo con le colline di Capodimonte (coronato dall’omonima reggia) e Posillipo e Castel Sant’Elmo e il Museo di San Martino lì su a farle da fondale e il Vesuvio e Capri da proscenio e c’è la Napoli dei quartieri alti del Vomero e di Posillipo con tante ville antiche e moderne e costruzioni alla moda: entrambe talmente facili da amare che da tempo hanno preso il sopravvento su tutto il resto. C’è, però, anche quella che Matilde Serao, cresciuta in un “basso” di Piazza Miraglia, nel 1884, memore di Zola, definì “Il ventre di Napoli”, quella Napoli “grigia in confronto al cielo e al mare”, in piperno, di cui sempre Walter Benjamin ci parla, quella dove, come ci racconta Maria Ortese nei suoi racconti pubblicati nel 1953, “Il mare non bagna Napoli”. Quella, insomma, attraversata, quasi fossero delle ferite, dai Decumani e di cui abbiamo parlato: la Napoli greca, antica e tanto più difficile da digerire per tutte le vicende di oblio, decadimento e incuria che l’hanno finora, purtroppo, contraddistinta. l’UNESCO, però, nel 1995, ha proclamato proprio quella e non le altre “patrimonio dell’Umanità” grazie al suo unico, inestimabile valore storico-artistico che finalmente si è deciso di valorizzare.

Nel ventre di Napoli l’arte è senza tempo” titolava qualche anno fa “Il Corriere della Sera” riferendosi alle nuove stazioni della metropolitana partenopea che, da qualche anno, punteggiano il suo centro storico, firmate da importanti architetti e abbellite da opere d’arte di artisti contemporanei. Al di là della realtà sotterranea della metro, però, come abbiamo visto, nel centro di Napoli effettivamente l’arte è senza tempo. Percorrendo, infatti, la superficie di quella che fu prima la Paleopolis, poi la Neapolis e, in fine, la Partenope greca l’arte e l’architettura si dispiegano davanti ai nostri occhi senza soluzione di continuità, offrendo generosamente esempi che vanno dai secoli avanti Cristo ai nostri giorni. Passeggiando lungo le strette strade dove la città sembra essere diventata un unico cantiere a causa delle infinite ristrutturazioni con le quali si cerca di riqualificarne il centro ingiustamente abbandonato, durante gli ultimi due secoli, al degrado e alla distruzione, si sente pulsare qualcosa di nuovo: una nuova vita che parte proprio dal cuore della città, da dove fu fondata in quel lontano VII secolo avanti Cristo. I giovani lo avvertono e sono proprio loro ad affollarne le strade sancendo una rinascita che si spera gloriosa e definitiva.

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