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festival veneziaDopo lo sfavillante viaggio nello spazio di Gravity di Alfonso Cuarón (in 3D), film d’apertura della 70esima edizione della Mostra Del Cinema di Venezia, il festival non sembra concedere – per ora – troppi momenti per la contemplazione di grandiose opere cinematografiche: tra le diverse pellicole “apprezzabili” si fatica a scovare l’opera in grado di stagliarsi imponentemente sulle altre per la sua qualità.

Svariate le pellicole italiane presentate in sala, tra cui la proiezione speciale dell’opera prima di Paolo Zucca L’arbitro: commedia che può permettersi di vantare regia e fotografia molto accurate nonché un cast di tutto rispetto (Accorsi, Pannofino, Cucciari, Cullin, Urgu).
Le molteplici trovate stilistiche azzeccate come la scelta di un bianco e nero decontestualizzante e decisamente non ordinario per una commedia contemporanea o l’utilizzo magistrale delle luci, che permette di conferire alle immagini un ventaglio di tonalità che oscilla tra il sacro e il grottesco, concedono al film una meritata considerazione.

L’animazione coraggiosa L’arte della felicità di Alessandro Rak apre invece la 28esima edizione della settimana della critica; in sala, a ricevere gli applausi, é presente il cast.
Indubbiamente piacevole per l’Italia poter presentare un film d’animazione che, sebbene non del tutto maturo, sfoggia soluzioni grafiche piacevoli (fatta eccezione per l’utilizzo evitabile del 3D considerando la freschezza del tratto 2D!) e una colonna sonora variegata e complessa (colonna sonora originale di Antonio Fresa e Luigi Scialdone), sostenitrice di una narrazione a tratti didascalica ma nel complesso coinvolgente ed emotiva. Sergio cerca il segreto della sua felicità, cerca la via per risorgere, il motivo giusto per tornare a suonare, affrontando sé stesso e il dramma della morte del fratello all’interno del suo sudicio taxi, per le vie di una Napoli perennemente bagnata dalla pioggia.

Via Castellana bandiera, opera prima della regista teatrale Emma Dante, applauditissimo e gradito ai piani alti della critica, appare – ciononostante – poco incisivo.
Sebbene non rientri dichiaratamente nelle intenzioni della regist, il film appare inevitabilmente come una banale riflessione sulla condizione di un Sud Italia fermo, intestardito in una tradizione ormai incancrenita (nel film macchiettistica) che rifiuta il cambiamento.
E se la metafora condotta tramite due donne ostinate al voltante delle rispettive auto (Dante/Cotta), in un testa a testa immobile per i vicoli di una Palermo domenicale, non voglia necessariamente farsi simbolo del particolare (il sud, la Sicilia) ma abbia una pretesa di più ampio respiro ( la condizione contemporanea) , anche questo, aimé, suona ricalcato, già visto, già tristemente appreso.

Tra le opere internazionali in concorso di maggior rilevanza v’é senz’altro Die Frau des Polizisten di Philip Gröning, accuratissimo occhio sulla realtà familiare di un poliziotto, sua moglie e la loro bambina in un piccolo paese tedesco.
La pellicola di quasi 180 minuti é suddivisa in 59 brevi “capitoli”: granelli delicati di regia impeccabile che progredendo nello sviluppo del semplice racconto mostrano il graduale incrementano della brutalità del poliziotto nei confronti della moglie.

L’atteso Child of God di James Franco (ispirato al romanzo omonimo di  Cormac McCarthy) non risulta del tutto deludente: il protagonista Lester Ballard, interpretato da un memorabile Scott Haze, é un uomo rimasto orfano e da allora impazzito (dicono), sfrattato dalla sua proprietà e reietto della comunità di un piccolo paese nel Tennessee. La sua vita condotta nei monti limitrofi finisce per trascendere ogni grado di umanità, riducendosi a uno stato animale costituito da pulsioni e criminalità.
La pellicola, incentrata interamente sull’analisi del personaggio, regala attimi potenti, capaci di suscitare compassione e – addirittura- comprensione per le azioni terribili che Lester compie.

Piacevole invece l’opera inglese Philomena di Stephen Frears che narra della triste vicenda (realmente accaduta) di un’adolescente irlandese che nel 1952, viene segregata nel convento di Roscrea come punizione per la sua gravidanza “disonorevole”; le suore del convento vendono il figlio della giovane mamma a dei ricchi americani, e dopo cinquanta anni, Philomena (una straordinaria Judi Dench), con l’aiuto del giornalista Martin Sixsmith (Steve Coogan), decide di intraprendere la ricerca del figlio che le fu sottratto.
La drammatica vicenda è inaspettatamente stemperata da un humour sottile, piacevole nel suo tenero dosaggio, in grado di arricchire le note emotive del film con un’ulteriore sfumatura.

Molte le opere inconsistenti per le quali ci si inizia a domandare : cosa ci fanno in concorso? – come Parkland di Peter Landesman, ultimissimo ri-ri-proponimento del dramma JFK.

Delusi – per ora – dal Concorso ufficiale, ci si dedica piuttosto alle opere della settimana della critica o della categoria Orizzonti, tra le quali sembra più facile scovare qualche lustro, come ad esempio
Razredni sovražnik (Class Enenmy), opera prima del ventottenne sloveno Rok Bicek.
Opera coerente che sorprende per la sua prematura consapevolezza, sia tecnica che concettuale.
Il film narra un episodio autobiografico del regista, accaduto durante il quarto anno del liceo: la classe si ribella al nuovo professore di tedesco, arrivando al punto di accusarlo, per via dei suoi modi severi e “da nazista”, di essere la causa scatenante del suicidio dell’amata compagna di classe Sabina.
Il dramma si fa però portavoce di dinamiche sociali più complesse: “I think (film) art should address issues that reflect the national as well as the global society. InClass Enemy this is achieved through the microcosm of the grammar school students, who belong to an extremely vulnerable generation. The rebellion of the students against the school system, which is symbolised by the strict teacher, is a reflection of the general dissatisfaction of a society that for whatever reason, justified or not, continuously attempts to rebel against the established social norms”.
La vicenda è mediata da una regia accurata, una fotografia non invadente ma equilibrata e sottile, e da preziosi raccordi spazi- temporali, traduzione visiva del sottile confine tra ambienti, tra microcosmo e globale.

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