Il Tasso in prigione di Eugène Delacroix
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«La malinconia non è altro che un ricordo inconsapevole».
Gustave Flaubert, Pensieri

«Non c’è nulla che avvicini le persone più in fretta
di una triste e malinconica comprensione».
Milan Kundera, Lo scherzo

L’epoca del Medioevo viene considerata un po’ da tutti come un passaggio tra gli albori del pensiero classico greco-romano e ciò che sarebbe sorto nel periodo del Rinascimento. Questo è valso anche per il pensiero medico-psicologico, che ha conosciuto diverse fasi, nella suddivisione storica che si fa tra Alto medioevo e basso medioevo, che differivano tra loro in quanto la prima era ancora legata alle modalità strutturali del pensiero tardo ellenico, mentre nella seconda si affacciavano già i temi che sarebbero poi ‘esplosi’ nel Rinascimento (soprattutto, l’uomo come ‘centro’ delle arti, delle scienze, della letteratura), con la ‘presentazione continuativa di quelli che M. Foucault chiamava i ‘saperi non assoggettati’ (ossia, l’alchimia, l’astrologia, il magismo), che avrebbero voluto tendere ad un corpus unico di conoscenze, non sempre, però, con la possibilità di essere utilizzati da tutti (c’era una tendenza al ‘personalismo sapienziale’ e all’elitarismo).

Per quanto riguarda gli stati psicologici ‘alterati’ ed il loro vissuto nell’epoca medievale, non si può non ricordare di come questi fossero, fino ad allora, confinati nella sfera religiosa, e quindi oggetto di studio di preti e monaci (dal momento che la follia, la melanconia, ed i comportamenti che ne derivavano, venivano assimilati ad una sorta di ‘vizio’, di idea degradante per il soggetto che ne era portatore, probabilmente inseriti in un discorso ‘demonologico’, dove, quindi, il diavolo era un ‘agente’ destabilizzante).
In quell’epoca, sotto il profilo medico, vigevano ancora molte delle teorie mediche dell’età ellenica, quale, per esempio, quella ippocratica, legata alla ‘teoria dei quattro umori’: sangue, flegma, bile gialla, bile nera (la terra corrisponderebbe alla bile nera o atrabile, in greco melàine chole, dalla quale deriverà il termine melanconia, che ha sede nella milza, l’acqua corrisponderebbe alla bile gialla detta anche collera che ha sede nel fegato, l’aria alla flemma (o flegma) che ha sede nella testa, il fuoco al sangue la cui sede è il cuore); così, ci si poteva trovare di fronte a vari tipi di soggetti (che diventavano quasi dei ‘tipi costituzionali’): i sanguigni (coloro i quali erano fisicamente abbastanza rubicondi, allegri, sfrontati, collerici, e sembravano attirati, prevalentemente, dalle ‘gioie’ di Venere o di Bacco); poi i flemmatici (conosciuti anche come linfatici, che erano individui un po’ intorpiditi, ottusi, con movimenti del corpo lenti ed abulici); ancora i biliosi (aventi un colorito ocra, di temperamento ambizioso, spesso falsi e/o bugiardi, di costituzione fisica magra); infine i melanconici (un po’ timidi, ma aventi un fondo di cattiveria insita in loro, perlopiù silenziosi, piuttosto interessati allo studio, inclini al dubbio ed alla contemplazione). Uno degli studiosi epigoni medioevali in tal senso fu senz’altro Avicenna (filosofo e medico persiano) che individuò una melancholia naturale ad una innaturale, strutturandola in quattro ‘forme’: la prima che traeva origine dall’incenerimento della bile, la seconda dall’incenerimento del flegma, la terza dall’incenerimento del sangue e la quarta dall’incenerimento della melancholia naturale. Altra dottrina fu quella di un filosofo arabo, nel IX secolo, Ishaq ibn Imran, per il quale la melancholia non era tanto riferita ad una patologia ben specifica, bensì alla causa, che si rinveniva nell’atrabile, in quanto essa avrebbe prodotto una specie di ‘vapore’ che esercitava una certa pressione sul cervello, producendo così uno stato depressivo, associato a solitudine esistentiva, e tutto ciò ‘avvolgeva’ il soggetto nei suoi stati psichici, fisici e spirituali, alterandone un possibile equilibrio (tale individuo, per esempio, cominciava a condurre una vita fatta di eccessi nel bere, nell’alimentazione, nel sonno, facendo sì che nel suo corpo si depositassero sostanze nocive che sedimentando, si tramutavano in atrabile; inoltre, costui avrebbe avuto molta difficoltà ad essere capace di elaborare una perdita affettiva, o ad affrontare situazioni emotive impegnative, rifugiandosi così nella paura o manifestando improvvisi accessi di collera verso altri, precipitando in uno stato psichico abbastanza problematico).

Il filosofo creò una classificazione sui vari tipi di melancholia: 1) una melancholia idiopatica, prodotta dal cervello, provocata dal bruciarsi della bile gialla, e che aveva come sintomi insonnia, disturbi gastrici, emicranie; 2) una melancholia simpatica, provocata dall’atrabile, prodotta in qualche organo interno e poi trasferita al cervello, con sintomi pressoché simili a quella idiopatica; 3) una melancholia ipocondriaca, provocata dall’improvviso passaggio dell’atrabile nell’epigastrio, con sintomi quali vomito, crisi paniche con pianto o riso. I fenomeni somatici che accompagnavano questi stati patologici venivano quasi sempre contrassegnati da un accesso depressivo commisto ad uno stato fortemente ansioso. Ma, al di là della sintomatologia medica, tutto ciò implicava, per coloro che vivevano in quell’epoca, altre ‘questioni’, soprattutto di tipo teologico. Infatti, in alcune opere a carattere fortemente religioso (cattolico), le suddivisioni di cui si parlava prima, venivano ‘assegnate’ seguendo un altro criterio, ossia, quello della colpa soggettiva. Infatti, per esempio, i soggetti umani che nascevano all’origine come tipi sanguigni, una volta cacciati dall’Eden, si tramutavano in soggetti melanconici, flemmatici o collerici, per cui, ciò che si palesava con differenze e disuguaglianze nella specie umana, veniva, di fatto, attribuita al peccato originale, poiché gli uomini, in realtà, sarebbero stati tutti ‘nobili’ sanguigni (in qualche modo, tale teoria anticipava di un po’ il concetto rosseauiano di un uomo che nasce buono, e poi viene ‘corrotto’ dall’ambiente). Ma non di sola melancholia si parlava nel Medioevo, in quanto, probabilmente, ciò che le si poneva di fianco era senz’altro un altro stato emotivo molto pregnante, ossia l’acedia (o accidia), che aveva ‘stimmate’ pressapoco simili (e, in un certo senso, ne era anche la ‘prefigurazione’ concettuale).
Infatti, per acedia (lat. acedia, ingl. sloth, franc. accidie, ted. acedie) si dovrebbe intendere l’avversione all’operare, mista a noia ed indifferenza verso gli altri.

Nella Grecia antica il termine acedia indicava, letteralmente, lo stato inerte della mancanza di dolore e di cura, l’indifferenza, e poi la tristezza e la malinconia. Il termine fu dunque ripreso nell’età medioevale, quale concetto/precetto della teologia morale, stando ad indicare il torpore malinconico e l’inerzia che prendeva coloro che erano dediti a vita contemplativa. Tutto questo portava anche all’idea di un tedium vitae, ossia a quella sensazione di stanchezza, di noia esistentiva, che talvolta cresceva in maniera non controllabile, senza possibilità di fare coping (ossia, ‘far fronte a…, affrontare’ un aspetto emotivo della propria vita), palesandosi poi con fantasie di morte, propositi di suicidio, fino alla eventuale fatale messa in atto di tali pensieri (che possono quindi far rinviare anche all’idea del depresso cronico, nell’epoca attuale, il quale sembrerebbe non abbia più voglia di vita, e coltivi prevalentemente idee suicidarie, o, quantomeno, autolesive). Di questo stato dell’esistenza umana, ne troviamo ampi echi in tutta la letteratura fin dall’epoca greco romana: basti pensare ad alcuni passi del “De rerum natura”, di Tito Lucrezio caro, dove viene l’acedia viene presentata come uno dei sentimenti che travagliano l’animo umano; o nel pensiero di Francesco Petrarca, laddove tale stato verrebbe designato dall’autore come la negligenza, l’indifferenza, la mancanza di cure ed interesse per le cose, lo smarrimento estremo, che stesso il grande poeta avrebbe provato nella sua vita, dibattendosi tra due desideri: quello di avere fama, successo (il ‘lauro’, metaforizzato nella Laura del “Canzoniere”) e l’amore, finendo per non riuscire a soddisfare nessuno dei due; o, ancora, nello “Zibaldone” di G. Leopardi, dove, invece, l’acedia viene definita come il più nobile dei sentimenti umani. Il filosofo Umberto Galimberti definisce l’acedia come uno “stato esistenziale e psicologico che insorge quando l’esperienza di un soggetto è progettivamente ed affettivamente demotivata” (e come non scorgere, partendo da queste parole, il ‘fare’ demotivato di molti adolescenti che, in luogo dell’idea di un percorso di vita futuribile, ‘affogano’ la loro età nel baluginare continuo illusorio di idoli di breve durata, o nell’esperienza ‘perturbante’ data dall’uso di sostanze stupefacenti e/o alcol, o nel presunto brivido di ‘giochi’ estremi, che verrebbero ‘agiti’ solo per ri-trovare qualche aspetto perduto della propria emotività). Una ‘motivazione’ da ridare anche mediante un ‘antidoto’ che propone il filosofo ‘padre’ del pensiero fenomenologico del XX secolo Edmund Husserl, il quale, a proposito della ‘stasi’ del pensiero umano proveniente da questo stato abulico, parlava di tre ‘movimenti’ insiti nell’accadere umano: la retentio (corrispondente al trattenere l’oggetto temporale del passato), la praesentatio (corrispondente all’oggetto temporale del presente), e la protentio (corrispondente all’oggetto temporale del futuro), in quanto tutto ciò che esisterebbe nella psiche, ed il suo corretto ‘sviluppo’, dipenderebbe da come questi tre momenti andrebbero ad intersecarsi. Inoltre, altro ‘antidoto’ sarebbe la ‘messa in opera’ del proprio essere patici (dal gr. paschein, ossia, dal com-penetrarsi), che si porrebbe in antitesi all’indifferenza esistenziale. Alcuni elementi mancherebbero al soggetto accidioso: la ‘risonanza emotiva’ (ossia, la capacità di ‘colorare’ appieno la propria emotività, sentendo quella altrui), il ‘riempimento vitale’ (la possibilità che nella propria vita si ‘innestino’ altre persone, cose, situazioni che contribuirebbero a renderla più piena), il ‘sincronismo vissuto’ (quella possibilità esistentiva di provare compassione verso l’altro o verso le cose, in quanto saper ammirare un paesaggio esterno, richiederebbe più di una semplice attenzione, quanto un vero ri-volgersi patico a quella particolare immagine).

L’accidioso perde ad un certo punto la sua capacità di provare, in pienezza, una emozione (lat. ‘e-motus’, ossia, ‘trasportare fuori’) il proprio ‘thymos’ (gr. ‘umore’), lasciandosi avvolgere dall’eccesso di contemplatività fine a se stessa. Proprio nel Medioevo, viene ripreso il significato originario del termine ‘monakos’ (monaco, ossia, solitario, celibe, praticamente l’equivalente effettivo del termine, spesso usato non correttamente, ‘single’, in quanto non momentaneamente solo, ma che ha scelto di restare solo). Infatti, la pratica del monachesimo, proprio in quell’epoca, raggiunge un po’ la vetta del suo (non)agire, in quanto la ‘prova’ dell’amore verso Dio sarebbe dovuta confluire in una data ‘incuria’ come segno del proprio ‘martirio’ emotivo, contro il desiderio che sarebbe apparso come un sentimento che spezza la beatitudine della vita dedita alla contemplazione, ed alla quale si sarebbe voluto contrapporre come ‘modello’ una vita di lussuria, di piaceri, ai quali erano dediti molti soggetti dell’epoca. Nasce nel Medioevo, relativamente all’acedia, il concetto di ‘demonologia gastro-intestinale’, ossia quello stato umorale che colpirebbe alcuni organi interni (soprattutto fra menti sensibili quali quelle di letterati ed artisti: Michelangelo, Paolo Uccello, etc.) che si manifesterebbe con sintomi quali flatulenza intestinale (attribuita all’opera del diavolo per colpire i soggetti accidiosi), o una versione parossistica conosciuta come licantropia o ‘insania lupina’ (la cosiddetta ‘follia del lupo), che si manifesterebbe, nei soggetti colpiti con volto esangue, occhi infossati, erranza nelle ore notturne ululando come i lupi.

E come non ricordare, a proposito dell’essere accidiosi, il personaggio ‘polisemico’ dell’Amleto shakesperiano (figura ormai quasi retorica, che è stato spesso studiata da diversi ‘fronti’ culturali, per rinvenire in essa una venatura romantica, poi vitalistica, poi freudiana, poi esistenzialista), che sembrerebbe, in alcune sue sfumature, porsi come emblema della malinconia accidiosa, un misto di nobiltà e di cultura avvolta dal tedium vitae. Anche nella letteratura, che dall’epoca medioevale si avvicina alla nostra Contemporaneità, è possibile ritrovare i temi dell’acedia, come ad esempio nel racconto di Ivan Goncarov (scrittore russo), “Oblomov” (scritto nel 1858, il cui titolo proviene da una parola russa, ‘oblom’, che starebbe a significare l’aver fallito, l’essere soggetti ‘spezzati’ dagli eventi), il cui protagonista è un uomo che vive una vita d’inerzia grazie ad una rendita vitalizia, con un servitore dal quale tende a dipendere per molte cose della realtà quotidiana; egli dorme moltissimo, sogna, non termina mai i libri che incomincia, è vestito sempre con una giacca da camera e con pantofole: ed il suo sogno prevalente (sorta di Immaginario ‘epidemico’) è per un paese di fantasia, Oblomovka, una sorta di mix tra il Paese dei balocchi di collodiana memoria, ed il più contemporaneo villaggio del Mulino Bianco, rappresentato costantemente in famosi spots pubblicitari. Ma come si palesa, nella iper-modernità, questo stato emotivo, proveniente, genealogicamente, dall’epoca medioevale? Ricorrendo al concetto di ‘Todestrieb’ (pulsione di morte) freudiano (ripreso e ‘dispiegato’ da J. Lacan con il concetto di ‘godimento mortifero’), si può evincere un conflitto tra questo e l’eros, ossia, l’affrettarsi verso il termine del desiderio, verso la fine di una pena esistenziale che si contrappone all’amore, vista come ‘deviazione’ dal ‘progetto’ godimento-morte, in quanto consisterebbe nel ‘perdere’ tempo a curarsi degli altri, che darebbe il via al nascere di nuove pulsioni e nuovi legami (sia interpersonali che sociali), ed anche di nuove pene (evitate ab origine dal soggetto accidioso). Quindi, l’eros si paleserebbe come possibilità di ritardare la morte lasciandosi ‘prendere’ da altri soggetti viventi, trovando una causa sia per la vita che per la morte, in quanto, seguendo Freud, quell’impulso impaziente ad essere felici sarebbe un po’ come ‘aspirare’ alla morte, ma l’eros tenderebbe ad ‘allungare’ questo tragitto ‘destinale’, mediante il ‘contrattempo’ della pulsione amorosa.

Tutto questo si legherebbe alla dimensione della ‘inautenticità’, del ‘Si’ impersonale ben descritta dal filosofo tedesco Martin Heidegger, che contrassegnerebbe un vissuto personale sempre legato alla ‘doxa’ (opinione), scarsamente soggettivo da contrapporre all’idea di un ‘esser-ci’, per una progettualità protesa verso il futuro, non incessantemente ristagnante nel presente indifferenziato. E non è un caso che, nella iper-modernità, a fronte dei cosiddetti ‘nuovi sintomi’ (depressione, attacchi di panico, anoressia/bulimia, gioco compulsivo d’azzardo) ci sia stata una ‘marcia’ pressoché inarrestabile dell’utilizzo di farmaci antidepressivi (per tentare di rendere il sintomo melanconico ancora più ‘anonimo’), che sarebbe triplicato nell’ultimo decennio in molti dei paesi più industrializzati. Tutto questo mentre, da una latro versante, si moltiplicano le ‘ricerche’ su una possibile causa della felicità, che ha portato al nascere anche di un nuova disciplina (che vorrebbe porsi come scientificamente basata su dati e statistiche), la ‘eudaimonologia’, che si prefigurerebbe di studiare tutto ciò con gli stessi strumenti di una qualsiasi disciplina economica (con criteri simili a quelli che spiegano come si accumulano dei capitali, immobili, ricchezza pro-capite in genere). Mentre, nelle relazioni interpersonali ed intime, si assiste sempre più ad un disfacimento del legame amoroso, in quanto tali relazioni non avrebbero alla base che un mutuo godimento, sulla scorta del motto contemporaneo anglosassone ‘Be cool’ (ossia, ‘raffreddarsi’, prendere la vita come una serie di momenti effimeri, dai quali ci si può tirare fuori, senza il minimo impaccio e/o rimorso), mentre il vero ‘impegno’ dell’eros (da opporre al divenire accidiosi/melanconici) dovrebbe ‘nutrirsi’ non solo di sessualità ‘performante’, bensì di protezione, pre-occupazione, una comprensione sollecita e cura dell’altra persona; ed ancora, come ci rammenta lo psichiatra fenomenologo Bruno Callieri (scomparso da breve tempo), una relazione fatta di mutualità, di inter-esse, di un ‘tra’, di un prendersi cura, di co-appartenenza, di dialogo ed intimità, in maniera tale da far diventare anche la sessualità un atto pienamente umano, che accade fra due individui che si possono i-trovare e far confluire la loro esistenza soggettiva in un comune progetto di vita, all’insegna del ‘noi’, tenendo ben presente, come sottolinea Galimberti, che l’emergere dell’amore non proviene che in parte dal regno della Natura, bensì, per potersi aprire verso l’esperienza di una persona altra da sé, necessiterebbe, per ogni singola persona, di aver raggiunto una modalità sufficiente di capacità di risposta emotiva ed affettiva di tutta la personalità. Mentre, nella melanconia accidiosa, ciò che si può rinvenire, soprattutto: un sentimento della mancanza di una sentimento, una certa ‘anestesia’ affettiva, una prevalente ‘eclissi’ della passione amorosa, l’assenza della cura che si riversi in una ‘dualità’ progettante. Allora, l’essere-insieme-nell’amore si prefigurerebbe non come un ‘io’ e ‘tu, ma come un ‘noi’, un incontro originario con l’altro da sé, in quanto, in una relazione affettiva (che il soggetto accidioso tenderebbe ad evitare), il ‘noi’ precederebbe ed anticiperebbe ogni singola soggettività, e si fonderebbe sulla realizzazione di un incontro intriso di autenticità. Il soggetto accidioso, anche nella iper-modernità, forse ancora più che nell’epoca medioevale, sarebbe altamente restio ad entrare in una relazione amorosa, in quanto il sentimento dell’amore evocherebbe, prevalentemente, sensazioni di paura, pericolo, minaccia per il proprio essere ‘singolare’ (anche la sensazione di divenire dipendenti da tale sentimento, quasi sentirsi ostaggio, impossibilitati ad avere il controllo del proprio ‘orizzonte epocale’). E senza dimenticare che, spesso, il soggetto melanconico, nella sua dimensione più tassativa di tristezza esistentiva, si lega anche al concetto di ‘hopelessness’, ossia, di perdita della speranza, senso di impotenza e di inanità, di incapacità di affrontare situazione della vita quotidiana, di difficoltà ad affrontare un cambiamento, nel quale viene avvertita tutta la dolorosità di un’esistenza bloccata’ nella dimensione dell’indecisione e dell’impersonalità.

Concludendo, rispetto al nostro Attuale, alla nostra epoca iper-moderna, potremmo, sempre con Galimberti, vedere l’accidia/melanconia come una patologia dello spirito contemporaneo, non tanto in quanto ha perduto l’orientamento religioso secolarizzato, bensì in quanto ha smarrito l’incanto del mondo, dal momento che la ‘technè’ ha contribuito a ridurre la razionalità al senso della pura materia, che si è fatta opaca, impermeabile, alla dimensione del legame sociale, ‘oscurando’ ciò che poteva venire riflesso nell’animo di ogni singolo soggetto.

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