Cura e ospitalità
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Una persona entra nello studio, domanda dove sedersi (benché il ‘suo’ posto sia in qualche modo già delineato da una certa disposizione delle sedie/poltrone), si accomoda, sospira, resta un po’ contratta, guarda negli occhi il terapeuta, e da quel momento, comincerà, probabilmente, a parlare, nell’attesa di una possibile ‘attivazione’ del transfert, di una data ‘ospitalità’ psichica, non ancora sapendo se il suo desiderio lo spingerà a parlare di se stesso per tanto tempo, o se cederà all’impulso di ‘risolversi’ autonomamente, bloccando qualsiasi spunto di riflessione su se stesso (in presenza di un altro ‘ospitale’), abbandonando così la ‘cura’.

Una persona, entra in una capanna/tepee, si siede/stende, prova a respirare meno affannosamente, guarda negli occhi lo sciamano/stregone (o, come indica Levi-Strauss, il ‘nele’) del villaggio, inizia a parlare e/o cantare, e da quel momento, pur non sapendo se ciò che lo ha portato lì, scomparirà, potrà scegliere di affidarsi al ‘mana’, alla ‘ospitalità’ simbolica del ‘curandero’ o, invece, tornare ad affrontare i suoi ‘spiriti’ che lo hanno accompagnato fin lì.
Ecco due esempi (lo studio di uno psicoterapeuta e la capanna dello sciamano) di come la dimensione possibile della ‘ospitalità’ simbolica, transferale, di natura prettamente psichica, possa indirizzarsi verso una ‘cura’, che sia di natura psicologica, e laddove ci sia l’adeguata cultura, anche a forte connotazione antropologica, e divenire una fattore portante dell’incontro ‘curativo’ tra due soggetti che, probabilmente, prima di allora, non si erano mai conosciuti né visti, e che cominceranno uno ‘scambio’ che avrà una ‘consistenza’ unica, una imprescindibile singolarità, al di là di qualsiasi possibile approccio teorico o culturale.

Nello specifico, bisogna dare una ‘direzione’ sia al concetto di ‘ospitalità’ che a quello di ‘cura’, per comprendere come essi si possano incrociare, divenendo anche una sorta di ‘struttura’, a latere di quelle che potranno essere rinvenute come le ‘strutture’ del soggetto il cui desiderio lo ha spinto verso una domanda di cura, rivolta a qualcuno che ha considerato, in quel momento, il ‘terminale’ della sua richiesta.

‘Ospitalità’ è un concetto che si rivela essere trasversale a molte discipline delle scienze Umane (e non solo, poiché dovrebbe appartenere, per esempio, anche alle scienze Mediche), il cui etimo viene dal latino ‘hostis’ (straniero, il corrispettivo dello ‘xenos’ greco), contrapposto ad un altro termine latino ‘ingenuus” ossia colui che è nato in un determinato territorio geografico, che si sente ‘autoctono’ (appartenente a quella terra, anche in riferimento alle cosiddette ‘divinità ctonie’, talune divinità femminili legate alle forze vulcaniche o sismiche di un dato territorio). Lo xenos/hostis non deve essere visto come un nemico, un soggetto che voglia recare danno al cittadino nato in quel luogo, ma come, semplicemente, uno straniero, colui che porta a doversi confrontare con una ‘alterità’, con il (non ancora) conosciuto, e quindi, possibile apportatore di novità psichiche/storiche/culturali/antropologiche, in grado di far evolvere quella data civiltà con la quale verrebbe a contatto, e, a sua volta, evolventesi.

Ora, il ‘passaggio’ auspicabile sarebbe quello del tentare di ‘trasformare’ uno ‘hostis’ in uno ‘hospes’ (ospite), ossia una persona in grado di essere accolta con adeguata ospitalità, con la quale stabilire rapporti di vario tipo (linguistici, lavorativi, religiosi, gastronomici, etc.), e con il quale così intraprendere uno scambio che porti ad un reciproco arricchimento, ad un nuovo ‘legame sociale’, dal quale poi si origineranno nuove possibilità esistentive per entrambi.
L’ospitalità diventa, dunque, il nuovo ‘campo’ nel quale sarà possibile ‘coltivare’ nuovi ‘frutti’ della reciproca soggettività, che avranno ‘cura’ di essere rispettosi delle ‘alterità’ messe a confronto, in quanto consapevoli di poter trovarsi, nella propria vita, nella doppia condizione esistenziale di hostis/hospes, a seconda delle scelte che si compieranno nei propri ‘riti di passaggio’ (Van Gennep, 1909).

Aristotele nella sua ‘Etica nicomachea” pone l’ospitalità in rapporto all’amicizia, asserendo che come in questa colui che si contorna di molti ‘amici’, in realtà, rischia di non averne poi nessuno, così colui che tenderebbe ad invitare troppe persone, correrebbe il rischio di non poter render loro nessun ‘servigio’ ospitativo. Questo perché, seguendo il pensiero aristotelico, non è di una idea altruistica o caritativa che si tratti, ma dell’implementare una vera e propria relazione scambievole, che si prenda anche ‘cura’ di mantenere inalterata eguaglianze e differenze.
Come si è visto all’inizio, tale definizione sembrerebbe calzare bene anche alla dimensione della Cura, ma si dovrebbe tentare di definire anche ciò che essa possa essere. Di definizione di tale concetto ne esistono tante, tutte veridiche e implementabili, tenendo presente che da tale termine ne derivano molti altrettanto importanti (sicurezza, sollecitudine, interesse, curiosità, etc.), ma la definizione che proponiamo (proveniente dal pensiero di Sergio Piro, psichiatra, e dal suo insegnamento conosciuto come ‘Antropologia Trasformazionale’), è questa: “ La cura, ossia, il prendersi cura d’altri, o anche, influenzamento destinale o transpersonalizzazione. E’ detta anche “attività trasformazionale protensiva” (attività del singolo o del gruppo, di come donne e/o uomini si protendono verso altre donne/uomini, e che solo per il fatto di essere pensata, progettata, agita, ha come conseguenza una trasformazione di coloro a cui si protende). Il progetto consiste nell’inseguire, partendo da un agire trasformazionale, un mutamento significativo del destino di coloro che sono detti ‘curati’. La cura ad orientamento antropologico-trasformazionale è una ricerca continua nella attività dei curati e dei curanti, nell’emersionalità della vita.”, poiché ci sembra, nella sua complessità e nella sua possibile dimensione ‘operativa’, molto indicativa per i concetti già espressi.

Qui, il concetto di ospitalità può trovare una sua possibile ‘casa’, in quanto esiste la dimensione di un ‘progetto’ e di una (possibile, non necessaria) ‘trasformazione’ (e non, semplicemente, una ‘guarigione’, in senso medico, vero e proprio ‘mito’ di molte persone che si rivolgono alla medicina, ed anche ad una certa psicologia/psicoterapia che, spesso e volentieri, ‘getta’ l’occhio verso talune procedure ‘evidence based’, tralasciando quasi completamente fuori dal suo campo d’azione, la dimensione estremamente ricca dell’emozionalità e della fondatezza ontologica di un essere umano) rivolta a quelli che sono (stati e saranno) i diversi accadimenti personali che un soggetto proteso verso la cura attraversa nella sua singola vita, e che sceglie un altro essere umano per tentare di addivenire ad una riflessione su ciò che il suo ‘orizzonte epocale’, in un dato momento storico della sua esistenza, non gli ‘rimanda’ più come accadeva prima, o ciò avviene con il ‘sovraccarico’ di taluni sintomi che ne impediscono una più completa ‘realizzazione’ (vista non come una ipotesi di ‘maturazione’ o, ancor di più, di ‘crescita’, di ‘evoluzione’ personale, ben al di fuori dell’idea di una cura psicodinamicamente, fenomenologicamente, ed antropologicamente orientata). Seguendo Heidegger, è opportuno affermare che tale concetto di ‘cura’ esula dalla comune convinzione che si tratti sempre di utilizzare tecniche o ‘tattiche’ o ‘strategie’ varie (come è possibile rinvenire, talvolta, nei nuovi ‘prodotti’ dell’Immaginario della Contemporaneità, quali le varie forme di ‘counseling’, di ‘coaching’, di ‘reiki orienting’, che condividono, trasversalmente, il concetto di ‘mastery’, di ‘maitrisè’, ossia di un soggetto che ‘guida’ un altro soggetto, mediante la propria ‘esperienza’ di vita ‘assolutizzata’, ad uscire dalle ‘secche’ di un possibile periodo di angoscia esistentiva, utilizzando poi delle tecniche ‘pret-a-porter’, valide per qualsiasi orizzonte di vita singola), di solito orientate a dare ‘effetti’ in un lasso di tempo relativamente breve a colui che è soggetto/oggetto della Cura. Questo perché, al contrario, il soggetto che si appresterebbe a cominciare una possibile ‘cura’ necessita del rispetto di un suo tempo personale (ospitalità ‘cronodetica’), di una ‘presenza’ non intrusiva (ospitalità ‘attenzionata’), distante quanto più possibile da eventuali ‘sollecitazioni’ da parte del curante (ospitalità ‘etica’).

Cosicché il terapeuta (sia esso analista, psicoterapeuta o sciamano, nelle sostanziali differenze ‘operative’), si orienterà verso una data ‘discrezione’, un continuo e non passivo ‘ascolto’, una ‘prossimità’ non egotistica, che non si presti ad essere confusa con il supporto ‘materiale’ di un soggetto cosiddetto ‘caregiver’ (colui che si prende cura di un altro soggetto in evidente stato di difficoltà, soprattutto nella dimensione familiare, o prossima, per cui egli divenga quasi indispensabile per facilitare movimenti e/o situazioni nelle quali il soggetto interessato da dis-abilità esistentive, troverebbe difficoltà a poter svolgere una normale ‘transazione’ con il suo ‘corpo ambiente’), ma veda il soggetto da curare come un essere non ‘difettoso’, non ‘imperfetto’, non da ‘normotizzare’, bensì come un essere che insegua una modalità ‘protensiva’ che lasci emergere il nucleo dell’esser-ci soggettivo. La cura è, altresì, anche un momento nel quale si possa riflettere, nella prossimità dell’incontro con il curante, su quella determinata ‘mancanza a essere’, su quella difficoltà di ricevere un senso dalle esperienze soggettive di ‘incontro’ con l’Altro, su quel bisogno di porsi in una relazione di ‘dipendenza’ dal proprio ‘Um-welt’ (mondo-ambiente, in senso heideggeriano), che, spesso, si tramuta in veri e propri ‘sintomi’ di dipendenza (basti pensare all’uso continuativo di sostanze varie, quali stupefacenti, psicofarmaci, alcool, nella loro dimensione di ‘oggetti anti-Amore’, come li definisce lo psicoanalista M. Recalcati, o alla dimensione del cosiddetto ‘circuito anoressico-bulimico’, dove il cibo diviene il ‘significante’ principale per rivendicare una ‘fame’ d’Amore, o di coloro che, avendo iniziato una relazione affettiva, nonostante evidenti ‘scollamenti’ in se stessi e nel partner, non riescono a venirne fuori, cominciando a restare ‘impantanati’ in una ‘palude’ di ricatti, di promesse effimere, di tradimenti, di rivendicazioni dal tratto marcatamente isterico, fino poi ad arrivare ad un ‘agito’, sia auto- che etero-diretto, dalle conseguenze spesso nefaste).

Quindi la cura vista anche, nella sua dimensione antropologica, come una ‘cura di sé’, come un momento di ‘costruzione’ nel solco di una ‘direzione’ scelta insieme al soggetto che si cura, che comincia davvero a ‘pre-occuparsi’ della sua assoluta condizione di singolarità nel mondo che lo vede ‘ospite’ temporaneo, che si protende verso la significazione della sua personale vicenda umana (dal momento in cui ha potuto rendersi contro della sua ‘attitudine’ ad essere ‘straniero a se stesso’), nella sua dimensione altrettanto importante, della ‘temporalità’ esistentiva, del suo ‘passaggio epocale’ collegato alla dimensione non solo del ‘kronos’ (ossia, lo scorrere del tempo visto come una sequenzialità semplice degli accadimenti umani) ma in quella del ‘kairos’ (ossia, quello che i Greci definivano ‘il tempo nel mezzo’, un momento particolare dove ‘qualcosa’ di non convenzionale, di non normativo, accade).

Di fronte a tale evidenza dell’Umano, un terapeuta dovrebbe ‘vestirsi’ di un ‘abito disposizionale’ che diventi un sicuro fondamento della sua attività di curante. Tale soggetto (che ha già, a sua volta, percorso il suo ‘dis-velamento’ esistentivo, tramite il dispositivo della cura, condizione fondamentale per non diventare un ‘funzionario della psiche’) dovrebbe essere orientato verso l’altrui ‘dis-velamento dei propri ‘talenti’, restando, per quanto possibile, in un orizzonte di ‘connessionalità’ con i sintomi singoli del soggetto richiedente un intervento curativo (una definizione alquanto interessante di questa ‘disposizione’ del terapeuta l’ha data lo psicoanalista argentino S. Resnik, che, a proposito del dispositivo della cura psicoanalitica, definisce l’analista una ‘persona in situazione’, volendo intendere con questa definizione un soggetto curante coinvolto, nella dimensione del transfert e della ‘ospitalità’ psichica, anche con la sua ‘ideologia scientifica e di vita’, che si astenga quindi dal divenire, semplicemente, un terapeuta che badi solo al suo narcisismo, bensì essere presente nel ‘pieno’ della cura, come persona che, avendo potuto verificare la propria ‘maschera’ durante il suo percorso analitico, si prenda cura (la ‘Sorge’ heideggeriana) della ‘maschera’ dell’altro, affinché tale ‘svelamento’ sia significativo e sostanziale).

Quindi, seguendo il ‘portolano’ del pensiero piriano, si dovrebbe cercare di cogliere, nell’orizzonte della Cura, la singolarità umana in tutta la sua ‘immersione’ esistenziale, in quello che viene definito un ‘campo antropico continuo’ (ossia, ‘il riferirsi alla continuità sullo stesso livello temporale degli eventi umani, nel loro continuo interagire, con il campo aperto informazionale, con il campo emozionale diffuso, con la loro ‘fluenza’ espressiva, dove la presenza umana non si chiude in una singolarità glaciale, ma è permeabile, così come una spugna. Tutto ciò si situa in un movimento metaforico immaginario, dove esistono traversamenti, linee, orizzonti, simile alla metafora eraclitea del flusso continuo’), nel formarsi quasi di due ‘linee’ che riporteranno, nella cura, le polarità provenienti anche dal legame sociale, e dalle sue ‘interruzioni’.
Il terapeuta, dunque, dovrà trovarsi pronto ad affrontare le ‘coordinate’ di questo processo trasformazionale che non si arresta mai e dove la sofferenza resta comunque un ‘significante’ sempre presente, in quanto la cura non potrà riferirsi, semplicemente, a talune particolarità di ciò che è accaduto o accadrà, nella simultaneità dell’esperienza, ma tenderà ad investire la completa esistenza del singolo soggetto che vi è implicato, in quanto, nella ‘prassi’ del dispositivo di cura, ri-troverà i suoi ‘talenti’, (se non andrà dietro l’idea di una possibile ‘liberazione’, fosse anche relativa alla scomparsa dei sintomi ‘abitanti’ se stesso), ma un concreto ‘operare’ relativo al suo ‘orizzonte di senso’.

Quindi, un terapeuta/analista che sia ‘ospitale’, non nel semplice accoglimento di una possibile domanda di cura (e che si orienti soltanto a cercare una eventuale ‘alleanza terapeutica’ con il soggetto richiedente), né altresì un ‘tecnico della liberazione’ (Piro, 1993), ma, piuttosto, un soggetto curante che possa condurre, insieme al soggetto da curare, una ‘ricerca’ lunga e condivisa sui vari ‘svolgimenti’ dell’esistenza personale, sulle possibili trasformazioni, sui ‘quaderni’ dei sentimenti, sul ‘catalogo’ delle passioni rinvenibili singolarmente, sull’incedere della sofferenza che irrigidisce, nel possibile ‘ritorno’ di un ‘discorso’ che si manifesti, di nuovo, fluente e vitale, e che rispetti la dimensione ‘abitativa’ del mondo che si fa ‘garante’ del passaggio esistenziale del singolo soggetto, nella possibile ‘ospitalità’ che questo gli offrirà per un temporalmente determinato ‘orizzonte’ di vita.

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