La chiave per il proprio futuro
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“Un Padre Spirituale per tanti… un punto di riferimento per molti… Quando ho appreso della tua scomparsa, caro Padre Francesco, ho avuto la sensazione di non aver fatto a tempo a dirti tante cose. Molti ti hanno conosciuto solo nella confessione… e ti avranno “amato” per quell’incontro, altri ti hanno incontrato come docente universitario… e ti avranno stimato per il tuo valore, altri ancora ti hanno incontrato come uomo fatto di carne… e avranno riconosciuto in te uno strumento di Dio perché sei stato loro vicino per accompagnarli in un tratto di strada. Questa non vuole essere una lettera malinconica per la tua scomparsa, ma anzi un messaggio di gioia, quella stessa che faceva brillare i tuoi occhi. Certo, non ci aspettavamo che tu avessi tutta questa fretta di raggiungere il Padre, tanto da non poter aspettare per un saluto prima di abbracciarlo. Mi hai insegnato un’altra cosa… le “partenze improvvise” come la tua, ci dicono una volta in più che, non conoscendo né il giorno né l’ora abbiamo il dovere di usare bene il tempo che ci viene donato per non vivere nel rimorso di non aver fatto o detto qualcosa! Se non ti avesse fermato il cuore, avrei cercato ancora il confronto su queste mie ‘paure’, per essere spiazzato, come sempre, dai tuoi punti di vista tutt’altro che scontati. Saresti stato sempre pronto a trovare il tempo, in un periodo in cui è di moda non averne affatto. Sai che ho trent’anni, una laurea ed una specializzazione rare, una fidanzata che amo da 7 anni e un lavoro che stenta a darci la tranquillità a cui ci hanno ‘educato’. La politica economica del nostro paese negli ultimi decenni ha prodotto, oltre alla degradazione del lavoro e all’insinuazione di una sottomessa rinuncia ai diritti conquistati (con sudore e sangue) dai nostri genitori e nonni, una società dove per “tirar su” una famiglia ci vuole incoscienza, (che tu chiameresti fiducia nel futuro o fede), e un po’ di spregiudicatezza (che tu chiameresti coraggio e determinazione). Ci chiamano “bamboccioni”, dimenticandosi che hanno istituito quella ‘flessibilità’ che non dà certezza di poter pagare tutti i mesi l’affitto (rigido e costante per sua natura) e i costosi pannolini per il bimbo che desideriamo avere al più presto (per non diventare genitori-nonni).

Mi vien difficile avere il tuo sorriso, quello capace di dare luce ad una giornata no, per affrontare un futuro governato da persone capaci solo a garantire il proprio interesse e quello di una ristretta cerchia di ricchissimi, alle spalle di una grande società sempre più indebolita. Mi è difficile capire questo e, soprattutto, accettare gli effetti che tutto ciò produrrà nella mia vita, quando avrò l’età dei miei genitori, con chissà quali strumenti. Questa difficoltà mi porta ad uno, forse ‘stupido’, scontro generazionale con i miei genitori, che tornano imbufaliti dal loro lavoro “fisso” per la riduzione dei buoni pasto, per l’ipotesi dell’eliminazione della quattordicesima, per la soppressione di una festa mai esistita (di cui mi son rifiutato anche di capirne il significato, ma che vuole dire pochi euro in più all’anno), perché tolgono loro il bus gratuito per andare al lavoro ecc… mentre io, che son costretto a gioire quando ottengo un contratto sottopagato privo di tredicesima, ferie, malattia, TFR e di ogni altro diritto. In cuor mio tratto loro da ingrati ‘privilegiati’ e irriconoscenti per la grande fortuna di poter godere pure di una pensione a cui, so bene, pur pagandola ora, non avrò mai ‘diritto’. E’ difficile avere coraggio in questo contesto. Chi lo ha creato, continuando su questa strada, pare voglia consolidare i propri vantaggi a scapito dei socialmente deboli e delle generazioni future e, per di più, a dispetto dei proclami delle campagne elettorali.

Mi manca l’analisi della realtà, anche quando si mostra spietatamente cruda, fatta con occhi diversi dai miei delusi, capaci di vedere il buono che c’è anche in questi tempi difficili in cui la mortificazione delle prospettive ha intaccato pesantemente una parte importante della società futura. Mi manca il tuo parlare la mia lingua. Mi manca la tua capacità di camminare al mio fianco, anche quando non lo facevi fisicamente. Grazie per aver camminato al mio fianco anche se per poco tempo, ti voglio bene. Matteo”

La lettera del giovane Matteo al sacerdote-amico deceduto improvvisamente, cela diversi “tipi di morte” tutti senza culto. La descrizione, pur parziale ed estremamente sintetica, di uno spaccato del momento storico che sta vivendo un’intera generazione, mette in luce la morte sul nascere della progettualità di una generazione che per difficoltà oggettive, ma anche per difficoltà proprie, stenta a partecipare attivamente alla costruzione della generazione successiva. Il pessimismo che imperversa tra tanti giovani rischia di diventare ingranaggio di un meccanismo perverso che alimenta la frustrazione della progettualità di una generazione. L’antidoto al pessimismo si legge tra queste righe, quando il protagonista “ribattezza” sentimenti negativi con altri complementari ma positivi e propositivi: “…incoscienza, (che tu chiameresti fiducia nel futuro)… e un po’ di spregiudicatezza (che tu chiameresti coraggio e determinazione)”, pur trattando del medesimo contesto, proprio perché il cambiamento affonda le sue radici nel credere che esso sia possibile.

Un secondo tipo di morte è quello che Matteo, con il senno di poi, attribuisce a sé stesso rendendosi conto di non aver sfruttato, quindi vissuto a pieno, il tempo che aveva a disposizione quando era in vita la persona cara. Il procrastinare, magari per mancanza di tempo o timidezza, i rapporti umani possibili e desiderati nell’oggi ad un domani prossimo ha portato, nel caso di Matteo, a perdere l’occasione di viverle. L’elaborazione individuale del lutto, qui rappresentato senza culto per la morte in sé, evidenzia uno degli aspetti più ricorrenti quando viene a mancare una persona cara: scoprire il “bisogno”, con relativo “pentimento” (troppo spesso postumo), dei vivi di non aver detto, raccontato, chiesto o ascoltato la persona deceduta, mettendo in evidenza, una volta di più, che nei rapporti umani l’occasione mancata è persa, mentre quella colta è guadagnata.

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