Immagine del film Si può fare, con Claudio Bisio
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di Rosangela Spina

Dove sta il confine tra normalità e minoranza? La tradizione occidentale ha convinto che i moti dell’anima riguardano esclusivamente la condizione cosciente della psiche. Il successo o l’insuccesso di una persona dipenderebbe dalla sua intelligenza e dalla volontà, omettendo intenzionalmente l’anima. Ma l’istinto fa muovere le persone verso o avverso il mondo della vita. Strumentalizzare il percorso tra ragione od anima è sempre stato pericoloso, ed ha innescato nei secoli numerosi pregiudizi ed ostracismi.

Ripensando ad un film che ho visto di recente, intitolato Si può fare (regia di Giulio Manfredonia, 2008) ed interpretato da un bravo Claudio Bisio nella parte dell’educatore sindacalista Nello, mi vien da dire che si è trattato di un argomento di nicchia, passato in sordina. I protagonisti partecipavano attivamente alla conduzione dello stabilimento da essi stessi pianificato, rendendosi parte attiva anche nell’amministrazione. Il film ha così posto un ennesimo interrogativo su questioni non del tutto risolte: quelle del collocamento in strutture adeguate, finalizzate al reinserimento nella società, di soggetti con problematiche psico-sociali che necessitano di assistenza e che risultano privi di supporto familiare. In questo senso, giustamente, una forma mentis più consona è quella che si avvicina all’idea di ambiente casalingo o familiare, la casa-famiglia, secondo i criteri esposti nel Decreto del Ministro per la Solidarietà Sociale del 21 maggio 2001; strutture definite “a ciclo residenziale e semiresidenziale” che, compatibile con le norme stabilite dalle autorità sanitarie, possiedono caratteristiche architettoniche simili a quelle di tipo familiare. Alcuni articoli stabilivano che le residenze dovevano avere adeguata capacità ricettiva, essere vicine ai luoghi abitati, possedere spazi opportuni di collettività e di socializzazione. Sono gli anni in cui si è posto il problema del contesto ambientale, della valenza psicologica del luogo in cui vivere.

Sentirsi a casa. Si tratta di questioni attuali che partono da molto lontano. Anticamente i primi ricoveri per persone non abili fisicamente o mentalmente si attuavano in strutture miste di carattere caritativo e curativo, nei monasteri benedettini, nelle confraternite, nei lazzaretti, infine nei frenocomi o manicomi. Ricordo per esempio il lazzaretto per il porto di Ancona, progettato da Luigi Vanvitelli nel 1733, la cui forma pentagonale fungeva da ricovero per la quarantena e da deposito-fortificazione.

La storia vera degli ospedali psichiatrici ha inizio con le leggi eversive napoleoniche e poi con quelle nazionali emanate dal Regno d’Italia del 1866 e 1867 per la soppressione degli ordini religiosi. Grazie a queste leggi, in tutto il paese, numerosi complessi monastici e conventuali acquisiti come demanio dello Stato furono ceduti ai Comuni e alle Province, per essere adibiti a funzioni di opere per pubblica utilità, tra cui i servizi ospedalieri o carcerari, che talvolta erano tra loro limitrofi. Uno dei primi ospedali psichiatrici, in pratica ghetti istituzionalizzati, fu ancora quello di Ancona, formato tra settecento e ottocento in seno alle iniziative assistenziali dello Stato Pontificio e proseguito con le operazioni riformiste del governo napoleonico. Per la formazione di un ospedale psichiatrico, però, vi erano alcune prescrizioni specifiche, ragione per cui la conversione d’uso di un convento o monastero, rivolta a quelli maschili, non era immediata. La struttura religiosa, spesso senza apportavi grandi stravolgimenti fisici, si prestava bene a questo tipo di cambiamento: refettorio, capitoli, magazzini, cucine, dispensari e luoghi comuni rimanevano tali, e le celle dei monaci o frati diventavano automaticamente dormitori per i reclusi. Le persone indigenti erano i maggiori indiziati, destinanti a finire in luoghi simili perché accusati di apportare carestie, malattie o “pestifera vacationis”, cioè quei vagabondi a cui venivano attribuite malattie non meglio interpretabili.

La rifunzionalizzazione dei numerosi edifici religiosi presenti in tutta Italia creò un profondo stallo negli anni postunitari verso la progettazione di edifici pubblici più moderni, più consoni alle nuove attività. Chiunque può riconoscere nella propria città qualche vecchio edificio religioso che è stato adibito ad ospedale o ente assistenziale (come l’OPG di Aversa installato nel 1876 nell’ex convento di San Francesco). Nell’Ottocento sorsero molti manicomi criminali ma per avere altre sedi apposite si giunse fino alle riforme giolittiane. Una legge del 1904 sulle “Disposizioni intorno agli alienati e ai manicomi” serviva per organizzare le strutture, non essendo più adatte le vetuste sedi ecclesiastiche, comunali o provinciali, sedi in cui peraltro i funzionari agivano in piena autonomia. Della loro organizzazione se ne era occupata liberamente la provincia, il comune, la prefettura, la questura, ma il manicomio, chiamato anche asilo mentale, proseguiva quell’antica impostazione di struttura carceraria, non stabilendo quelle necessarie connessioni tra detenzione, cura e riabilitazione.

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