Safwan Mohamed durante l'incontro
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di Jihan Saket

Il regime di Alsisi è forse il più violento e repressivo che l’Egitto abbia mai conosciuto. Chi ha lottato per chiedere giustizia sociale oggi viene arrestato o fatto sparire, mentre l’occidente fa finta di non vedere le quotidiane violazioni dei diritti umani.

“Se dovessimo mettere sul piatto di una bilancia tutti i soprusi, gli abusi e le ingiustizie commesse dai regimi di Gamal Abdelnasser, Anwar Alsadat, Hosni Mubarak, della Giunta militare e di Mohamed Morsi e sull’altro piatto quelli perpetrati dal regime di Alsisi fino a questo momento, sarebbe certamente quest’ultimo a pesare di più”.

Una vignetta del periodo della rivoluzione che ritrae Khaled Said che tiene in ostaggio Hosni Mubarak
Una vignetta del periodo della rivoluzione che ritrae Khaled Said che tiene in ostaggio Hosni Mubarak

Le parole di Safwan Mohamed, giornalista e attivista egiziano più volte incarcerato in Egitto, sono una pesante accusa nei confronti di un regime che ha spento definitivamente tutte le speranze di un popolo che chiedeva dignità e giustizia sociale e si è ritrovato invece a dover sopravvivere schiacciato da un sistema in cui la repressione è un fatto quotidiano.

Safwan è intervenuto, insieme ad Ahmed Said, anche lui attivista e membro della ECRF[i] , all’incontro organizzato da The Post Internazionale dal titolo “Egitto 2018: uno stato d’emergenza”, per raccontare la tragica situazione dei diritti umani nel paese.

“In questo momento – continua Safwan Mohamed – oltre 60 mila persone, fra cui anche molti bambini, sono rinchiuse nelle carceri egiziane, accusate dei crimini più assurdi perché in Egitto oggi si viene messi in cella senza nessuna reale motivazione”.

Lui stesso è stato accusato, di volta in volta, di terrorismo, traffico di armi o di stupefacenti e affiliazione ai Fratelli musulmani, ha conosciuto il carcere diverse volte ma, come Ahmed Said, ha avuto la fortuna di sopravvivere e poter raccontare la sua esperienza.

“L’espressione che mi viene in mente quando penso a ciò che avviene oggi in Egitto – dice Ahmed Said – è quella di “guerra sporca”, usata in passato per descrivere le azioni della dittatura militare in Argentina. Le tattiche usate sono infatti le stesse: arresti per strada, esecuzioni sommarie, sparizioni di persone, torture e uso dei parenti per fare pressione sugli oppositori che si volevano colpire. Oggi in Egitto ci sono centinaia di casi di questo genere”.

“Ma la vera domanda – continua Ahmed – è: come fanno i governi europei e occidentali non solo a riconoscere questo regime, ma anche a considerarlo come un regime legittimo? La risposta è tanto semplice quanto triste: i governi occidentali usano tematiche come quella dei migranti, della sicurezza, della lotta al terrorismo, e sono esattamente le stesse argomentazioni che usa il regime di Alsisi. Moltissimi attivisti o blogger sono stati accusati di terrorismo o appartenenza a gruppi terroristi, persino persone che sono notoriamente atee, come Wael Abbas. È successo anche ad Amal Fathi, che è stata arrestata con l’accusa di fare un uso scorretto di internet e diffondere notizie false, mentre ciò che ha fatto è stato solo postare un video su Facebook in cui denunciava due fatti di molestie sessuali di cui era stata vittima nello stesso giorno. Amal si trova in carcere da maggio scorso e il suo stato di fermo continua ad essere prolungato di volta in volta”.

Amal, come ha ricordato anche Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, non è solo un’attivista, ma è anche la moglie di  Mohamed Lotfi, ricercatore di Amnesty in Egitto e fondatore della ECRF, che, nonostante le intimidazioni ricevute, continua ad assistere la famiglia Regeni nella ricerca della verità. È forse questo dunque il vero motivo per cui Amal è stata arrestata e si trova ancora in cercere.

Quando Giulio Regeni scomparve Ahmed Said era in carcere e volle manifestare il suo sostegno scrivendo su una maglietta “Se volessimo sapere chi ha ucciso Giulio Regeni dovremmo chiedere a Khalid Said”[ii].

“Quello che è successo a Giulio – dice Ahmed – è un esempio di ciò che succede in Egitto a tantissime persone ogni giorno. Non si può guardare alla sua storia come ad un qualcosa che rigarda solo un italiano o solo l’Italia, ma la sua causa riguarda tutti noi, così come ciò che succede in Egitto non riguarda solo l’Egitto, ma riguarda tutto il mondo e la difesa dei diritti”.

Il vero problema è che anche nella maggior parte dei paesi occidentali ciò che muove i governi non è la difesa dei diritti umani o l’interesse a proteggere le società di cui quei governi dovrebbero essere responsabili, ma contano molto di più gli interessi economici e gli scambi commerciali e, in misura forse anche maggiore, la salvaguardia del proprio potere.

Il rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo il 14 settembre scorso poteva far sperare in una maggiore presa di coscienza a supporto dei diritti umani in generale e nell’apertura di nuovi canali di dialogo per arrivare ad indentificare i responsabili della morte di Giulio Regeni, ma probabilmente la verità è che l’Italia non può fare a meno di un partner come l’Egitto. Sì, perché la verità è che l’Egitto serve  all’Italia molto più di quanto l’Italia stessa serva all’Egitto.

Mentre l’Egitto di Mubarak guardava all’Europa, di cui voleva essere un partner strategico, l’Egitto di Alsisi ha rafforzato i propri legami con i paesi del golfo, Arabia Saudita e UAE in primo luogo, che hanno fornito al regime aiuti per 40 miliardi di dollari. La stessa cessione delle isolette di  Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita nell’estate del 2017 (nonostante le proteste di piazza che avevano infiammato il paese già dal 2016) la dice lunga sul grado di sudditanza nei confronti della petromonarchia. All’epoca furono definite come “due scogli disabitati” senza nessuna importanza, ma il loro controllo in realtà significa controllare l’accesso al Golfo di Aqaba e al Mar Rosso – e, di conseguenza, a Israele e Giordania – oltre che le rotte mercantili. Traffici, peraltro, destinati ad aumentare con l’allargamento del canale di Suez, realizzato grazie alla collaborzione strategica ed economica con i cinesi.

Altri aiuti (12 miliardi di dollari) sono arrivati dal FMI, il quale ha imposto al paese l’applicazione di una politica di austerity, che ha trovato la sua principale realizzazione nei tagli al welfare.

Il grande progetto a cui l’Egitto lavora è però quello di diventare un nuovo hub energetico regionale e trasformarsi da paese importatore ad esportatore di energia, grazie ai giacimenti trovati da ENI al largo delle coste nel Mediterraneo. Per questo mantenere in piedi questo regime  risulta importante per l’Occidente e per l’Italia in particolare, con cui gli scambi commerciali superano i 30 miliardi di euro, senza dimenticare che in Egitto operano molte imprese italiane, soprattutto nel settore delle costruzioni e del cemento, che hanno risentito degli effetti della profonda crisi degli ultimi anni.

Da un punto di vista politico poi, Alsisi è il maggiore sponsor del generale Khalifa Haftar (che a quanto pare è arrivato alla conferenza di Palermo, voluta dal premier italiano Conte, più grazie all’intercessione del presidente egiziano che per gli sforzi della Farnesina), e riesce a controllare i flussi di migranti che arrivano proprio dalla Libia (sorvolando sul come questo avvenga).

Probabilmente manca una vera volontà politica di smascherare i crimini commessi dal governo egiziano. I troppi interessi in gioco impediscono di condannare apertamente un regime che fa comodo a molti e che sfrutta abilmente la minaccia del terrorismo per trovare legittimazione (peraltro anche in patria, dove gode dell’appoggio di parte della comunità copta, che lo considera un baluardo contro la deriva islamista nel paese).

“La verità – secondo Ahmed Said – è che nel mondo in cui viviamo non c’è posto per la politica dell’etica, se è vero che si possono mettere sui due piatti di una bilancia gli interessi economici, strategici e politici contro i diritti umani e la loro violazione”. La cooperazione a livello governativo, che dovrebbe essere uno strumento per avvicinare le persone e creare un dialogo costruttivo, si trasforma in un fine, che è solo quello di generare profitto, sia esso politico, economico o di altro genere.

È per questo, secondo Ahmed, che bisogna cercare altre forme di impegno civile, che escano fuori dal contesto politico e istituzionale classico. Il suo sogno, ci spiega in una conversazione privata a margine dell’incontro, è che ogni popolo possa combattere la propria battaglia e che le persone si mobilitino contro le pratiche dei propri governi, se vengono percepite come incompatibili con i valori in cui credono. Questi movimenti dovrebbero essere interconnessi e solidali fra di loro, in modo che le singole battaglie si trasformino in un’unica battaglia a livello globale.

In attesa che questo sogno si realizzi, ciò che ognuno può fare nel suo piccolo è quanto meno interessarsi a queste tematiche e mantenere vivo l’interesse, cercando di fare arrivare al mondo la voce dei detenuti, degli oppressi e degli emarginati, le cui storie rischiano di essere soffocate e dimenticate con il passare del tempo.


[i] la Commissione egiziana per i diritti e le libertà, ONG per i diritti umani che, fra le altre cose, offre consulenza alla famiglia di Giulio Regeni

[ii] Khaled Said nel giugno del 2010 fu una delle vittime della legge di emergenza in vigore nel paese da decenni. Le foto del suo volto sfigurato dal pestaggio da parte delle forze di sicurezza egiziane, che causò la sua morte, divennero virali sui social media e suscitarono un’ondata di indignazione nel paese che fu una delle scintille che accese la successiva rivoluzione

2 thoughts on “La “guerra sporca” dell’Egitto

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