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Intervista a Simone Rapisarda Casanova


Se dovessi ripercorrere la storia e le vicissitudini del Significato (Dal lat. significatus-us «senso, indizio») per giungere alla coniugazione che più sembra tendere al titolo di quest’opera soave, La creazione di Significato, abbraccerei probabilmente l’Organon aristotelico, che fa dipendere il significato delle forme linguistiche dalla loro relazione con le «affezioni dell’anima», e opera una puntuale distinzione tra s. del nome e il s. del verbo al fine di conferire a quest’ultimo un valore temporale supplementare: verbo che «significa, in aggiunta, il tempo»[1].

Siamo sulle Alpi Apuane, lungo quella che un tempo veniva chiamata Linea Gotica, successivamente rinominata Linea Verde: ultimo baluardo della difesa tedesca contro l’avanzata dell’esercito degli Alleati verso il nord Italia e per questo avamposto partigiano.

Pacifico Pieruccioni vive tra queste montagne silenziose, lavorando quella terra che fu teatro di massacri, imboscate e rastrellamenti.

 

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GP: Come hai conosciuto Pacifico? Come nasce e si sviluppa questo film?

SRC: Mi trovavo a Roma, alla ricerca di finanziamenti per un progetto sull’Italia contemporanea. Prima di ripartire per il Canada a mani vuote e un po’ demoralizzato andai a trovare mia madre che da diversi anni abita da quelle parti. Alla ricerca di soluzioni per tirarmi su il morale mi consigliò di fare un film su Pacifico…di andare a conoscerlo…Il suo nome emblematico mi incuriosì e così iniziai la mia ricerca. Parlai con lui del progetto e espressi le mie idee. Insieme capimmo in che modo renderlo possibile. Fu tutto un divenire, ciò che in inglese chiamano “Process-driven filmmaking”: non sapevo esattamente cosa avrei trovato, incontravo le persone e mi chiedevo “In che modo possono interagire con il mio film?”. Non mi piace dirigere i miei attori: predispongo con cura il contesto, il loro campo da gioco, per poi lasciarli liberi di esprimersi e interpretare se stessi.

GP: Nel tuo primo lungometraggio El árbol de las fresas (2011) immortali la vita in uno degli ultimi villaggi di pescatori di Cuba prima che venga spazzato via da un uragano. Un villaggio che sorgeva nel luogo in cui Cristoforo Colombo attraccò quando giunse nelle Americhe. Ne La creazione di Significato Pacifico vive invece sulla Linea Gotica. É una mera coincidenza oppure vi è un’effettiva fascinazione per questi luoghi storicamente significativi che racchiudono una storia indelebile, generando spesso forti paradossi con la realtà attuale?

SRC: C’è un libro, uno di quei testi che ti rimangono dentro per sempre…L’Aleph di J.L.Borges. Nel racconto omonimo si narra di un uomo convinto che nella sua anonima cantina , sullo spigolo del diciannovesimo gradino, si trovi l’Aleph, punto nel quale passato, presente e futuro nello spazio e nel tempo convergono, una sorta di buco nero… Quest’idea, questi luoghi nei quali l’Aleph si manifesta, mi hanno sempre affascinato.

(Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph  sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo…)[2]

GP: I dettagli poetici degli animali e quelli lirici delle montagne presenti nel tuo film hanno istintivamente richiamato alla mia mente il film di Wim Wenders su Sebastião Salgado, Il sale della terra. In questa autobiografia il celebre fotografo confessa di aver riposto la sua macchina per svariati anni a causa dell’eccessiva sofferenza provocatagli dalle atroci realtà umane immortalate nei suoi scatti. Riprese in seguito il suo lavoro per il progetto Genesis, (2004-2011) : un progetto prevalentemente di paesaggi e natura selvaggia, ma anche di popolazioni che continuano a vivere secondo le proprie armoniose tradizioni ancestrali. Tutto questo concepito come un potenziale percorso di riscoperta dell’umanità…

SRC:  C’è del vero in quel che dice Salgado. Dopo aver realizzato le riprese sono partito per Haiti, dove ho insegnato cinema per un anno. Ancora non riesco a quantificare la misura in cui questa esperienza mi abbia profondamente cambiato. Filmai quei dettagli naturalistici quasi per gioco: avevo da poco comprato degli obiettivi macro e volli provarli. Quando poi mi ritrovai al montaggio ad Haiti, decisi d’inserire quelle riprese nel mio film. Forse, se non mi fossi trovato in quei luoghi, circondato da una realtà così difficile, non avrei sentito l’esigenza di utilizzarle…

GP: Perchè in quel lungo piano sequenza di Pacifico che cucina hai utilizzato proprio la trasmissione radiofonica de “La zanzara”?

SRC: Non conoscevo quella trasmissione. L’ascoltai casualmente in rete e la trovai perfetta. Feci svariate prove con altre trasmissioni radiofoniche, ma alla fine scelsi quella. Era divertente e al contempo catturava la rabbia di molti italiani nonché la spettacolarizzazione di questa ad uso mediatico. Ho voluto correre questo rischio: temevo che il mio film potesse apparire troppo provinciale e che solo gli italiani ne avrebbero riso. A Locarno, sono rimasto piacevolmente sorpreso nel vedere quante persone in sala si divertivano durante quella scena. All’interno del film mi sembrò inoltre un giusto richiamo alla mia idea iniziale del progetto sull’Italia contemporanea che volevo realizzare a Roma, dato che il radioascoltatore chiamava proprio da lì. Pacifico si trova isolato sulle montagne, lontano dal centro politico, dalla Capitale. La radio è l’unico strumento che gli permette di seguire ciò che avviene lontano da lui.

GP: Insieme alla sequenza sovracitata de “La zanzara”, ho personalmente individuato il cuore del film nell’ultimo lungo piano sequenza che vede Pacifico e il compratore tedesco con il suo figlioletto seduti al tavolo a bere del vino. Una scena molto potente, a differenza di quanto sostenuto da alcuni critici. Mi è sembrato che l’assenza di una risposta o di un pensiero ben definito (quello di Pacifico in risposta alle domande del tedesco), così ostentata e protratta in questo lungo PS, ritraesse alla perfezione il concetto di un Significato (forse quello del titolo?) che si genera nel tempo, che acquisice consapevolezza solo nella distanza…

SRC: Generalmente scelgo dei titoli che sottendano l’intero film come una corda, che suggeriscano ciò che nel film non esplicito mai, volontariamente. Durante il montaggio stavo leggendo La nausea di Sartre e il titolo è diventato La creazione di Significato. La chiave della scena in realtà è abbastanza semplice: è la presenza del bambino, in quanto erede del presente, della storia vissuta dal padre e da Pacifico. Il film ha inizio con dei bambini che studiano e recuperano la storia dei propri luoghi natii, e come in un cerchio, si chiude con un bambino…

 

Sembrerebbe quasi automatico individuare, in questa lunghissima sequenza finale, l’Aleph di Simone Rapisarda Casanova. E aggiunge: “Il Significato può essere creato solo quando passato, presente e futuro s’incontrano”.

In una delle scene più sublimi del film, in una sovrapposizione armoniosa e rarefatta di due volti che osservano e interpretano il profilo di una vetta e la montagna stessa, Pacifico conclude: “Ognuno ci vede ciò che vuole”, in attesa dell’Aleph.

 

Vincitore del premio Miglior regista emergente al 67o Festival del Film di Locarno, selezionato al Torino Film Festival, La creazione di significato,  secondo lungometraggio del regista Simone Rapisarda Casanova dopo El árbol de las fresas (anch’essa in concorso a Locarno 2011), è stato presentato anche nella sezione Bright Future dell’International Film Festival di Rotterdam 2015.

 

 

[1] http://www.treccani.it/enciclopedia
[2] J.L. Borges, L’Aleph, Milano, Feltrinelli, 2004 , pp.179

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