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Quando si parla di “economia del riuso” si è soliti pensare ad un’attività di nicchia, di piccole comunità o di qualche singola azienda che ha la sua mission nell’attività del recupero dei materiali. In realtà non è così che stanno le cose.

L’economia del riuso e del riciclo, rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana che investe stili di vita e società, ambiente ed economia, produzione e consumo, profitto ed occupazione. Un possibile nuovo modello di sviluppo, dunque, che non fonda più il motore dell’economia sull’accumulazione e lo spreco, ma lo converte alle infinite variabili del riciclo di oggetti e materiali. Un’economia che da orizzontale si trasforma in circolare con una serie di effetti a cascata sull’intero sistema.

Complice la crisi economica e una nuova coscienza ecologica, “riciclare” sembra essere diventata la parola d’ordine del terzo millennio: l’usato fa boom, la filosofia del “non si butta via niente” è il nuovo mantra che se da un lato ci fa guardare agli oggetti che possediamo in maniera nuova, dall’altro ci permette di recuperare tutto ciò che fino a ieri sarebbe finito dritto in discarica. Mercati e mercatini che vendono oggetti usati crescono in maniera esponenziale a livello locale e nazionale, una filosofia che sembra essere diventata una moda e di moda per coloro che subiscono il fascino degli ambienti e dell’atmosfera dei mercati di una volta. Nei mercati dell’usato si compra e si vende senza orizzonti, chi conosce fa ottimi affari, chi desidera risparmiare è accontentato, chi cerca nuovi sbocchi lavorativi e commerciali è il benvenuto.

Dall’abbigliamento usato per bambini a quello per sportivi; dal recupero e assemblaggio di materiale usato per creazioni artistiche ai veri e propri centri dell’usato; moderni rigattieri raccolgono e vendono di tutto: vestiti e dischi in vinile, libri, mobili ed elettrodomestici; una pratica che in tempi di crisi si traduce anche in risparmio. Un modo per disfarsi di oggetti che non usiamo più o che hanno smesso di esercitare su di noi la loro attrattiva, un modo per creare nuovo spazio nelle nostre case e nei nostri armadi e contestualmente ottenere un guadagno extra, un vantaggio quest’ultimo non unilaterale. Infatti, anche chi acquista ne trae beneficio dal momento che riesce ad aggiudicarsi oggetti in buono stato se non addirittura nuovi ad un costo nettamente inferiore al reale prezzo di mercato. A ciò si aggiunga il beneficio che ne trae l’ambiente: il riuso, infatti, si fa sostenibile dal momento che consente di ridurre la quantità di oggetti in circolazione il cui destino ultimo sarebbe la discarica. Una micro-economia salva portafoglio, dunque, incentrata sulla possibilità di riutilizzare oggetti che ancora non hanno terminato il loro ciclo di vita, fattore questo che se consente ad alcuni individui di incamerare un guadagno aggiuntivo, permette ad altri di risparmiare, senza dimenticare la possibilità di aprire un’attività incentrata proprio sull’usato.
Il riuso ha potenzialità nascoste: intanto perché le cose che scartiamo ogni giorno sono tantissime e in seconda battuta, perché il recupero conviene sia a chi cede che a chi acquisisce, riduce il prelievo di materie prime e la produzione di rifiuti, promuove condivisione e commistione di gusti e stili di vita, aumenta l’occupazione. Promuovere il riuso, inoltre, non sembra richiede troppo tempo e si può fare con poche risorse.

Dopo il secondo conflitto mondiale, in un mondo fatto a pezzi, tutto doveva essere ricostruito, soprattutto il senso del tutto. A partire dagli anni Cinquanta il forte desiderio di riscatto da una parte e la fiducia in un mondo in cui tutto fosse finalmente possibile favorì da allora la nascita di un’economia sempre più basata e incentrata sul consumismo. Da allora e sempre più si è pensato a una ricchezza fondata su quanto materialmente si possedeva, senza che ci si soffermasse a riflettere sulle conseguenza del consumo intensivo delle risorse del pianeta, sull’impatto ambientale e l’esigenza di proteggere il futuro con mezzi, strumenti e strategie adeguate e di lungo termine.
Produrre e consumare sono stati a lungo gli imperativi categorici dominanti. L’obiettivo era la riduzione dei tempi di vita di un prodotto, la sua durabilità ridotta fino al punto che ripararlo fosse meno conveniente che sostituirlo con la conseguenza logica di produrre una quantità immensa di rifiuti.
A partire dal 2008, con la crisi economica, si è iniziato a registrare un calo costante dei consumi, sono state scritte nuove regole di consumo e i propri comportamenti in questo ambito sono stati rivisti. Ciò ha fatto si che si tornasse gradualmente a privilegiare il senso del risparmio e, contestualmente, la riflessione sui nostri stili di consumo ci ha reso più consapevoli dei danni arrecati al pianeta.
Una filosofia, questa del riuso, che, come dicevamo alll’inizio del nostro discorso, consente di andare verso un concetto di economia circolare che prevede la necessaria riduzione dei rifiuti e dei prodotti concepiti fin dalla loro progettazione secondo il principio del riutilizzo o del riciclo, i quali allungando il ciclo di vita dell’oggetto ci consente di preservare le risorse necessarie a produrre il corrispondente articolo nuovo. In questo modo, non solo si evita lo spreco di risorse in termini di smaltimento, l’usato, infatti, è a km 0, un mercato che, dunque, si approvvigiona localmente attraverso privati che mettono in vendita oggetti inutilizzati e di sovente anche gli acquisti avvengono localmente. Nel momento stesso in cui non si rendono necessarie le spese di trasporto (almeno a lunga distanza) allora anche l’ambiente non può che trarne beneficio.

Dalle indagini curate da Swg e promossi da CNA emerge che negli ultimi sei anni due italiani su tre hanno ridimensionato le spese per l’abbigliamento, il 60% degli intervistati confessa di aver fatto ricorso a riparazioni sartoriali pur di non dover dismettere i capi di abbigliamento e l’87% si dice disposto a recuperare un articolo danneggiato o usurato ricorrendo in molti casi al “fai-da-te, magari allargato alle comprovate o anche solo presunte capacità di familiari e amici.
Gli acquisti sostitutivi, dunque, si compiono solo se e quando si ritengono indispensabili.
Secondo Guido Viale, l’economista dei rifiuti più noto in Italia, la tendenza a riparare potrebbe garantire importanti effetti economici. Quello della “riparazione”, settore ad altissima intensità di lavoro, infatti, favorirebbe un aumento per nulla trascurabile dell’occupazione. “Intervenire su qualsiasi oggetto – avverte Viale – è un comparto che richiede lavoro qualificato, implica, cioè, competenze, richiede tempo e sembra altresì gratificare chi ripara. Sul lungo periodo potrebbe, inoltre, favorire un ritorno per i produttori a produrre “beni durevoli”, apribili, riparabili, oggetti diversi per qualità e sensibilità ecologica sulla cui riparabilità si potrebbe impostare e giocare un nuovo marketing”
Attualmente, abbiamo un sistema economico e produttivo in cui il lavoro non c’è e quando c’è è precario, mal retribuito e poco o per nulla gratificante. Verosimilmente, è proprio dalla consapevolezza di abitare un mondo in cui una fetta importante della popolazione si sente esclusa ed emarginata che sembra originarsi l’esigenza di creare nuovi ambiti lavorativi. Ciò richiede, naturalmente, uno sforzo di tipo collettivo: la complessità che caratterizza la nostra epoca implica, infatti, che nessun individuo possa avere da solo tutte le competenze necessarie. Inoltre, anche i nuovi mezzi di comunicazione sembrano incoraggiare l’incrocio, l’interrelazione e l’intersezione di conoscenze e know how, i quali a loro volta potrebbero dare vita a nuovi orizzonti di senso.

Il riutilizzo è diventato oggetto di interesse e analisi in moltissimi ambiti. Sono certamente le persone più anziane, legate alla cultura della scarsità, quelle che si dimostrano più legate alle cose e predisposte alla loro manutenzione e riparazione eventuale. I giovani, dal canto loro, cresciuti nella cultura dell’usa e getta e delle reti telematiche, sembrano, in linea generale, più predisposti a “buttare” piuttosto che a mettere in comune quanto è in loro possesso.
Eppure, Domenico Secondulfo, docente di Sociologia presso l’Università di Verona, ci fa notare come qualcosa nel frattempo sia cambiato. Il cosiddetto mercato dell’usato oltre ad essersi specializzato si è fatto più articolato e le persone si sentono propense a vendere e comprare con maggiore facilità oggetti di seconda mano. Verosimilmente, la congiuntura economica sfavorevole ha contribuito alla diffusione del fenomeno, ma non va sottovalutato un altro aspetto importante: l’usato oggi sembra aver perso lo stigma sociale negativo del passato, pur persistendo i tratti del rituale di decontaminazione per molti oggetti (capi di abbigliamento per lo più).
Usato come nuovo, usato perché è ecologico, usato perché non posso fare altrimenti, usato perché mi ricorda qualcosa o qualcuno: le cose hanno una vita che ci riguarda da vicino. Molto di più di quanto crediamo. In molti casi, infatti, si registra ancora la difficoltà a disfarsi di quanto abbiamo in casa, anche se si tratta di oggetti dismessi, che non utilizziamo più. La nostra, del resto, è una cultura degli oggetti: tutti, chi più e chi meno, ci consideriamo figli della “roba” e tutti su di essa siamo soliti proiettare le nostre emozioni, trasformando gli oggetti che popolano le nostre case in veri e propri oggetti d’affezione, in particolare se ci ricordano una parte importante di vita. Insieme alle cose, dunque, rischiamo di gettar via pezzi di noi stessi, quasi che dagli oggetti dipendesse la nostra stabilità emotiva. Quante volte, del resto, conserviamo gli oggetti perché in essi è riposta la memoria di una persona cara o di una storia che ci ha preceduto?

Se modificassimo questo atteggiamento rispetto ad essi e passassimo dalla nozione di possesso a quella di uso, quasi certamente allora favoriremmo i rapporti tra le persone.
Quello dell’usato è un mercato interclassista che coinvolge in maniera trasversale un po’ tutti: a farvi ricorso, sono i ceti medi (in particolare quelli con un elevato livello di istruzione), ma anche consumatori accorti, consapevoli, che seppur non in possesso di redditi alti, hanno un elevato capitale culturale e la necessità di ottimizzare questo reddito. A questi si aggiungano poi le categorie socio-professionali meno abbienti, quindi impossibilitate ad accedere in maniera agevole al mercato del nuovo.
E’, tuttavia, doveroso domandarsi se la crisi economica da sola, possa spiegare il ritorno alla riparazione, al riciclo, al riuso. A questo proposito Romano Màdera, filosofo e psicoanalista di formazione junghiana, ordinario presso l’Università di Milano Bicocca, sostiene che tali fenomeni non solo sono inevitabili ma arrivano da lontano. E’ ormai nell’immaginario collettivo la consapevolezza che la crescita affannosa e affannata dell’epoca consumistica non solo si è rivelata inappagante sul piano personale, ma risulta attualmente insostenibile anche su quello ambientale. Tutto nell’individuo ha una misura, nonostante il desiderio di infinito sia connaturato nell’uomo. Se si eliminasse in via definitiva il limite, il desiderio diverrebbe profondamente insoddisfacente, soprattutto rispetto ai bisogni naturali e necessari che per loro stessa natura sono limitati.

Oltre ciò, un ulteriore aspetto merita di essere preso in considerazione: la nozione di “riparazione”, dal punto di vista della psicanalisi, ha grande valore perché sembra rimandare a un concetto di “recupero” e “recuperare” in un altro tempo e in una diversa relazione, certamente nuova, qualcosa che si è rotto nel passato e che ha prodotto conflitti e determinato distruttività. In questa prospettiva, la pratica dell’usa e getta, pare aver infranto l’atavica abitudine alla parsimonia, generando in noi un inconsapevole senso di colpa. A intensificare tale dissidio interiore sarebbe poi intervenuto il mondo globalizzato e interconnesso il quale quotidianamente, in una maniera che diremmo costante, ci ricorda come la ricchezza e l’abbondanza diffusa riguardino solo una parte del pianeta a discapito di un’altra. Consapevolezza, questa, che sembrerebbe contribuire ad alimentare il senso di colpa.
Rigenerazione, riciclo e riuso testimoniano che un’altra economia è auspicabile e possibile senza ideologie ma attraverso l’uso razionale delle risorse di cui già disponiamo. Nel segno del riuso economia e ambiente possono davvero rinascere. La filosofia del riuso, oltre a basarsi sulla nozione del “non spreco” delle risorse, si fonda sulla considerazione/constatazione biunivoca che ciò che non serve più a noi può servire ad altri. Una filosofia che permette di riappropriarsi della manualità attraverso laboratori creati ad hoc da artigiani e artisti, un punto di aggregazione e socializzazione importante, dove la soggettivazione delle individualità deve lasciare spazio alla condivisione, alla collaborazione, allo scambio e in ultima analisi all’unione e in cui ’incontro di materiali, donatori, fruitori, artisti favorisce l’esplosione delle idee e della creatività.

Potentissima risposta alla crisi economica, di giustizia, valori e identità, la filosofia del riuso rende la società più sostenibile, equa e partecipata. Anche la democrazia ne risulta rafforzata. La filosofia del riuso non obbliga nessuno, si limita ad offrire delle possibilità. Chi lo desidera può trovare oggetti e materiali, altri possono trovarci idee e persone, altri ancora intravedervi un nuovo stile di vita e un’appartenenza dal basso a qualcosa che si riteneva perduto.

Fonti
Secondulfo D., La danza delle cose. La funzione comunicativa dei beni nella società postindustriale, Franco Angeli, Milano, 1990
Secondulfo D., Sociologia del consumo e della cultura materiale, Franco Angeli, Milano 2012
Viale G., La civiltà del riuso. Riparare, riutilizzare, ridurre, Laterza, Bari-Roma, 2010
L’usato che ragiona, Rapporto nazionale sul riutilizzo 2013, A cura del Centro di Ricerca Economica e Sociale Occhio del Riciclone , con il Patrocinio Morale del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare
Usato, moda o risparmio? Seconda mano, Bergamo è leader, L’Eco di Bergamo, Economia, 20 agosto 2013
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http://www.linkiesta.it/mercatini-usato-milano
http://www.bergamonews.it/economia/boom-dellusato-35mercatini-bergamo
http://www.nuovetendenze.net/il-mercatino-diventa-un-franchising-ecco-lusato-che-muove-leconomia/

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1 thought on “La civiltà del riuso. Viaggio ai confini dell’economia reale

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