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Ho assistito per la prima volta alla Cavalcata sarda nel 2008. Da allora non manco mai. La Cavalcata sarda, per chi non lo sapesse, è una lunga, enorme, affollatissima, partecipatissima sfilata di persone provenienti da molti luoghi della Sardegna, riunite in associazioni culturali o gruppi folcloristici, che vestono l’abito tradizionale del proprio paese.

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L’evento non ha un significato religioso; non ha, insomma, nulla a che fare con la sfilata per Sant’Efisio che si tiene a Cagliari, o con la festa del redentore di Nuoro. Semplicemente le persone sfilano per le vie di quella parte di Sassari che viene – un po’ pomposamente – definita centro ottocentesco, dando vita a una stupefacente “variante mobile” di un museo etnografico. E lo fanno senza l’incombenza di dover sciogliere un voto, senza dover rendere omaggio a un santo, ma solo per il piacere di tenere viva una tradizione e di partecipare a una festa.

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Ci sono le espressioni più antiche: i Mamuthones di Mamoiada, o i Boes di Ottana, o i Tumbarinos di Gavoi (cito queste senza voler far torto a nessuno, perché ce ne sono molte altre), che sono delle vere e proprie maschere, dei travisamenti dell’essere umano che evocano antichissimi riti di passaggio da animale a uomo, da tenebre a luce, da barbarie a civiltà. Maschere che oggi associamo al Carnevale, ma che hanno radici molto più antiche e fanno riferimento a paure ancestrali.

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Poi ci sono gli abiti quotidiani di un passato non tanto lontano, quelli tipici della vita pastorale, della vita agricola, della vita di casa delle donne panificatrici e tessitrici: quelli ritratti nelle splendide fotografie di Thomas Ashby o di Pablo Volta o nelle incisioni di Delitala, o Ballero, o Biasi.

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Infine ci sono gli abiti della festa, gli abiti legati al matrimonio, alla devozione al proprio santo, alla vedovanza. E sono i più spettacolari: colori, sete, ricami, gioielli, oro o austera seta nera. Senza dimenticare che alcuni abiti – per tacer dei gioielli – sono davvero dei pezzi “da museo” essendo stati cuciti oltre un secolo fa, o persino alla fine del XIX secolo. E che altri sono la riproduzione moderna e perfetta di costumi tradizionali di un certo paese usciti dalle abili mani di artigiani e artigiane guidate dalle ricerche di studiosi e appassionati.

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Chiudono la sfilata: i cavalli. Quei cavalli che sono amici e compagni di lavoro, fonte d’orgoglio, incarnazione di forza, tradizione.

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L’origine di questa manifestazione è relativamente recente: nel 1899 Umberto I Re d’Italia e la moglie Margherita erano in vista a Sassari e li si volle omaggiare di un tour virtuale dell’isola riunendo le rappresentanze dei suoi paesi in un unico luogo in un unico giorno. Fu per i sardi anche un modo di contarsi? Fu un modo di far vedere a quel re che l’isola poteva offrire molto, che aveva una cultura ricca e variegata quanto quella di ogni altra parte d’Italia? A me piace immaginare che quella prima Cavalcata abbia significato anche questo.

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Oggi la Cavalcata non è ancora completamente uno “spettacolo per turisti” e non è nemmeno una manifestazione amata da tutti i sassaresi, che, spesso infastiditi, colgono l’occasione per passare una giornata al mare o attendono chiusi in casa che tutto sia passato. Comunque lo spettacolo – grande, indimenticabile – per i turisti c’è: la macchina organizzativa della manifestazione, guidata dal Comune di Sassari, punta dritta a quello, ma, ciò che percepisco io è che chi sfila non lo fa per i visitatori stranieri (sempre più che benvenuti), ma piuttosto per gli altri sardi e, quindi, per se stesso.

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Io di certo non sono una turista, ma, malgrado una militanza cittadina che dura da quasi due lustri, non sono ancora una vera sassarese. Infatti non sono per nulla infastidita dalle giornate di calca, rumore e deviazioni del traffico; mi fa anzi piacere che il centro storico (dove vivo) si animi per una settimana di eventi e mercatini e sono felicissima di guidare i turisti-non-organizzati persi per i vicoli a raggiungere piazza del Duomo o piazza d’Italia. Però ho ancora lo sguardo del “visitatore” e ogni anno per me la sfilata è davvero uno spettacolo imperdibile, che mi lascia sempre a bocca aperta; non mi stanco mai di scoprire e ammirare nuovi dettagli, pieghe di stoffa, fili di seta, strati di orbace, bottoni, coralli, fazzoletti, ghirigori.

E questo anche se ormai ho imparato a conoscere al volo moltissimi costumi di moltissimi paesi da nord a sud dell’isola. Amo incondizionatamente i grembiuli delle donne di Orgosolo, con quei fiori (tulipani?) stilizzati verdi e rossi e gialli; i copricapi delle donne di Samugheo, complicati e stratificati. Amo gli scialli delle donne di Oliena; le gonne a strati (uno da riportare sul capo) delle vedove di Tempio; i piedi nudi dei pescatori di Cabras; gli ori ridondanti ed eccessivi delle donne di Cagliari. Mi affascinano i bottoni d’argento, grandi e tintinnanti, delle ragazze di Ittiri; i cappotti austeri, ruvidi e perfettamente utili allo scopo degli uomini delle Barbagie.

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Sento la Cavalcata come una festa vera. Vedo in quei colori, in quelle forme, ma anche nelle facce e nelle mani e nei sorrisi delle ragazze e nei musi dei cavalli e negli sguardi neri di certi giovani cavalieri i frammenti di un mosaico grande, che pare impossibile stia tutto in un’isola lunga poco più di duecento chilometri. Un mosaico di tessere che devono il loro colore brillante e la loro capacità di ammaliare anche ai numerosi – sofferti o meno, ben sopportati o meno – contatti che la Sardegna ha avuto, nel corso della sua storia, con tutte le culture del mare nostrum.

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