Salvius Otho
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di Vitale Scanu

Invisibile… La maggior parte della realtà che ci circonda è invisibile. Le polveri cosmiche sono invisibili, il mondo subatomico è invisibile, gli atomi sono invisibili, Dio è invisibile per essenza… Anche le radici sono invisibili.

In Sardegna, a fronte delle fascinose particolarità (flora, fauna, usi, musica, costumi…) che rendono questa isola unica, esiste quell’indescrivibile pathos o modus vivendi che i “consumatori” di Sardegna notano avvicinandola. Forse sono i suoi giorni carichi di storia remota, forse quegli endemismi unici, forse le sue radici millenarie, che attraggono e stregano i turisti e gli studiosi. La Sardegna dev’essere scoperta e capita dall’interno, perché la Sardegna è bella dentro, nel suo mondo invisibile… Le mandrie dei turisti starnazzanti della costa Smeralda e dei jukebox non potranno mai scoprire la Sardegna vera, la sua genuina essenza etnica.

Se si potessero riassemblare quegli atomi, indistruttibili, che han dato vita ai sardi preistorici, se si potessero seguire tutte le invisibili diramazioni delle loro presenze, se si potessero scomporre le matrioske innumerevoli che, vita dopo vita, hanno dato l’esistenza ai sardi di oggi, si potrebbe seguire il filo della loro identità che ancora oggi fermenta e innerva la Sardegna più autentica e misteriosa. In quest’isola, poiché il tempo risulta più dilatato, gli usi e le particolarità regionali stagionano più a lungo, le radici vengono preservate con cura gelosa; il territorio della nostra Sardegna si potrebbe paragonare ai boschi di Taniawa, dove la superficie, ancora dopo parecchio tempo si muoveva, per gli ultimi sussulti dei sepolti vivi. Le radici più profonde restano sempre vive e non gelano mai.

Oggi andiamo alla scoperta delle radici di un villaggetto sperduto in fondo alla Sardegna centrale, nei regni del silenzio e della natura. Un paesino fatto di nulla: quattro case accucciate l’una accanto all’altra, come un armento che meriggia all’ombra delle grandi querce e degli ulivi millenari. Dove la primavera corre tra peschi e mandorli in fiore sotto un cielo d’un azzurro giotto nel quale una bambagia di nuvole sfilacciate muove lentamente verso terre lontane. Si chiamava prima Bànnari, oggi Villa Verde. La sua identità si perde nei millenni della preistoria e della protostoria. Andiamo.

La frequentazione umana, infatti, nel territorio di Bànnari è certamente molto remota. Verosimilmente preistorica. La presenza di molti nuraghi (4 monotorre e 6 complessi, con una densità di 0,576 nuraghi per 17,35 chilometri quadrati di territorio comunale), lo testimonia in maniera inconfutabile.

– Ma se dobbiamo costruire una scaletta temporale sulle tappe di una cronologia abitativa della zona di Bannari, dobbiamo senza dubbio assegnare il primo gradino alla zona montana, all’insediamento gravitante attorno al nuraghe Brunk’e s’Omu. La Bannari di valle arriverà in un secondo momento. L’esame pedologico del territorio sembra dar ragione a una priorità degli accentramenti montani su quelli della pianura: una maggiore sicurezza difensiva, l’abbondanza di approvvigionamento d’acqua, la maggiore salubrità del sito, la gestione migliore di un’economia pastorale, la vicinanza ai giacimenti di ossidiana… sembrano indizi sufficienti per indicare la zona di Mitza Mraxiãi 1) come sito abitativo antecedente a quello di valle.

La storia di quest’area è strettamente legata a quella di tutto il monte Arci e di conseguenza alla presenza dell’ossidiana. La scoperta di questo materiale nel neolitico (da cui è possibile ricavare lame, armi e strumenti vari), non provocò solo un addensamento demografico, ma anche intensi scambi commerciali. «Recenti ricerche svolte presso il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Cagliari, hanno consentito di individuare i traffici commerciali delle ossidiane sarde, distinguendo le quattro differenti aree di estrazione del Monte Arci in base alla loro composizione chimica». Con l’avvento dei metalli, lo sfruttamento e la diffusione dell’ossidiana, anche se con un’intensità più modesta, proseguì fino alle porte del periodo romano, raggiungendo considerevoli livelli di rifinitura dei manufatti, venendo utilizzata anche per ornamento e per il culto. Il complesso nuragico di Brunku s’Omu che si affaccia su una incantevole cornice ambientale sul versante orientale del Monte Arci, recentemente istituito a Parco, è compreso all’interno del suggestivo bosco di Mitza Mraxiãi. L’inferno di fuoco del 1983 e quello recente del luglio 2009 hanno distrutto quella che oggi doveva essere una rigogliosissima foresta secolare, potenziale fonte di turismo e di benessere. Il fuoco sembra essere una maledizione ancestrale che, distruggendo enormi ricchezze ambientali, riconduce sempre Bannari – Villaverde al punto di partenza.

La particolarità del massiccio del Monte Arci è quella di avere ricchi giacimenti di ossidiana (gli unici in Sardegna), dovuti alla sua origine vulcanica. L’abbondanza di questo vetro vulcanico, che viene spesso definito l’oro nero della preistoria, ha rappresentato fin dalle epoche più remote una straordinaria risorsa economica per le popolazioni locali. Numerose sono le testimonianze connesse alle cave di estrazione e ad antichissimi laboratori artigianali (le tracce di frequentazione più antiche risalgono almeno al 6000 a.C.), nei quali il prezioso vetro vulcanico veniva lavorato per ricavarne coltelli, punte di frecce, asce, specchi ed altro ancora. «La fittissima concentrazione dei centri di raccolta e di officine per la lavorazione attorno al monte Arci, dimostra in modo inequivocabile, che tutti gli abitanti della zona furono attivissimi esportatori dell’oro nero per un lunghissimo periodo di tempo, sicuramente oltre mille anni”, dal IV millennio a. C. fino all’arrivo dei metalli. L’ossidiana del Monte Arci è stata ritrovata in moltissimi siti in tutto il Mediterraneo, a testimoniare l’esistenza di un florido commercio che suppone necessariamente l’esportazione del materiale via mare, probabilmente dai vicini golfi delle “fenicie” Tharros e Neapolis, dove recenti ricerche sembrano confermare l’esistenza di porti preistorici». A Bannari l’archeologo prof. Cornelio Puxeddu ha individuato 17 centri di lavorazione dell’ossidiana (a Pau 19), che gravitavano essenzialmente nella zona montana.

L’indagine effettuata attorno al 2005 nel Brunk’e s’Omu ha finora dissotterrato numerosi ambienti abitativi, di una caratteristica molto primitiva, prevalentemente sotterranei, che presentano diversi vani di forma circolare, sub ellittica, sezione di ellisse, quadrangolare, arricchiti di banconi e nicchie, come in una capanna del villaggio interpretabile come “luogo delle riunioni”. Alcuni ambienti, per l’articolazione dell’im-pianto, fanno pensare a un isolato a corte centrale.

Questo villaggio di Brunk’e s’Omu è ubicato alle pendici del nuraghe omonimo, di tipo complesso, la cui indagine, condotta dai responsabili scientifici del sito: Emerenziana Usai, Giuseppina Ragucci, Carmen Locci, Gabriella Puddu e Sandrina Carta, non è stata ancora completata, si inquadra bene nella descrizione che Diodoro Siculo fa del coevo popolo nuragico degli Ilienses, «che hanno le proprie sedi sui monti, dove abitano certi luoghi impervi e di accesso difficile, abituati a nutrirsi di latte e di carni, perché vivono di pastorizia e non hanno bisogno del grano. Abitano in dimore sotterranee, scavandosi gallerie al posto di case, e così evitano con facilità i pericoli delle guerre. Perciò, quantunque i Cartaginesi ed i Romani spesso li abbiano inseguiti colle armi, non poterono mai ridurli all’obbedienza». E aggiunge: «Quantunque i Cartaginesi al vertice della loro potenza si facessero padroni dell’isola, non poterono però ridurre in servitù gli antichi possessori, essendosi gli Iolei (Iliensi) rifugiati sui monti ed ivi, fattesi abitazioni sotto terra, mantenendo quantità di bestiame, si alimentavano di latte, di formaggio e di carne, cose che avevano in abbondanza. Così, evitando le pianure si sottrassero anche alle fatiche del coltivare la terra e seguitano ancora oggi a vivere sui monti, senza pensieri e senza fatiche, contenti dei cibi semplici».

– Dal periodo preistorico e protostorico, Bannari passa, senza notevoli soluzioni di continuità, al periodo romano e all’arrivo del cristianesimo nella colonia Iulia Augusta Uselis, sulla quale Bannari gravita e da cui dista circa otto chilometri. I romani, si sa, pur modificando profondamente l’aspetto organizzativo dei territori di loro acquisizione, davano importanza alla continuità degli usi, costumi e credenze religiose indigeni. I vari tratti di percorsi viari dal caratteristico basolato che attraversano e convergono nella zona pedemontana del monte Arci (S. Reparata, Padenti…) portano alla convinzione che i romani, presenti nella zona con la fondazione (o rivalorizzazione) di Usellus nel II secolo a.C. come colonia romana (dove per un periodo fu pretore anche Quinto Cicerone, fratello del più famoso Marco Tullio), abbiano trovato, nella zona attorno al nuraghe Brunk’e s’Omu, una comunità ancora viva e operosa. Il sito da essa abitato, sia per l’attività ancora in essere dell’ossidiana, sia per l’idoneità geografica, si prestava egregiamente come luogo di passaggio, ideale scorciatoia (iter per compendium) di collegamento tra Usellis e Neapolis. «Quella che chiamiamo la via vetus per Karalis, da Fordongianus (Forum Traiani), passando da Allai, arrivava alla colonia di Uselis e procedendo lungo le pendici orientali del Monte Arci, da qui conduceva a Neapolis lungo le vallate del Rio Mogoro e del Flumini Mannu».

Volendo cavalcare la fantasia possiamo dar credito al seguente ragionamento. Bannari, in dialetto si dice Bãini. Un’assonanza ci porta al vocabolo greco βαινειν (bainein, che significa attraversare, passare oltre), un verbo di moto per luogo. E’ pura fantasia, lo so, ma, applicandola a Bãini in questo contesto di vie romane, ha la sua ragionevole suggestione: Bãini come luogo di passaggio, forse in relazione al commercio dell’ossidiana da e per Usellus.

Con l’avvento dei romani, è molto verosimile che sia mutato anche lo “stile di vita” dei nuragici bannaresi. Da un’economia impostata sulla pastorizia montana, è andata prendendo piede l’attività agricola di pianura e contestualmente l’impianto dell’ulivo e della vite. Attesa la mentalità romana che tutto faceva convergere attorno alla macchina onnipotente dello stato, sembra logico suppore che anche il villaggio di Bannari abbia dovuto adeguarsi a un incremento massiccio dell’agricoltura, continuando la depauperante monocoltura agricola (coltivare solo frumento, proibiti tutti gli alberi da frutto, pena la morte) tristemente collaudata dai punici. O per mezzo di incentivi o per costrizione, il popolo della montagna ha dovuto transumare a valle e lì diventare stanziale e dedicarsi a dissodare il territorio vallivo. Nasce la Bannari (Villa Verde) di oggi, che ancora conserva nel suo dialetto arcaico tanti termini bassolatini fossilizzati.

«È sicuro che durante la repubblica l’agricoltura sarda doveva essere ben poco sviluppata, se in alcune occasioni non riusciva a garantire neppure l’autosufficienza alimentare. L’estensione dei campi abbandonati alla fine del I secolo a.C. raggiungeva in Sardegna secondo Varrone una dimensione notevole in alcune località (forse vicine ad Uselis oppure ad Olbia), anche a causa del brigantaggio. Strabone sostiene che le razzie dei popoli montani costituivano, assieme con la malaria, un grave inconveniente che riduceva i vantaggi dei suoli adatti alla coltivazione del grano…

«Ma alla fine dell’età repubblicana e nei primi decenni dell’impero, il trasferimento di un consistente gruppo di coloni di origine romana a Turris Libisonis e ad Uselis non può non aver segnato una svolta culturale per la società isolana… Soprattutto grazie all’attività degli immigrati – i Falesce arrivati dall’Etruria meridionale, i Buduntini dall’Apulia; i Siculenses, il negotians Gallicanus di Carales, i coloni di Turris Libisonis e di Uselis, i soldati, in particolare i legionari, i marinai della flotta, i condannati ad minas (alle miniere), i confinati tra cui molti cristiani – durante l’età imperiale l’economia agricola sarda raggiungerà una grande floridezza, in seguito allo sviluppo del coloniato ed allo sfruttamento intensivo delle campagne. L’Expositio totius mundi (di un ignoto scrittore del 360 circa) parla di una “Sardinia ditissima fructibus et iumentis (molto ricca di frutti e di bestiame), et est valde splendidissima”. Ancora attorno al 400 il poeta spagnolo Prudenzio può controbattere il pessimismo del romano Simmaco, ricordando che la flotta continuava a riempire fino a farli scoppiare i granai di Roma con il frumento dei Sardi, aggiungendo con sarcasmo che non era vero che l’isola esportasse nella capitale solo ghiande di quercia o pietrose corniole come alimento per i Quiriti». «Furono riempiti non solo quei granai che già erano stati costruiti, ma se ne dovettero fabbricare degli altri; in una successiva spedizione furono inviate dalla Sardegna pure 1.200 toghe e 12.000 tuniche per i soldati». Così, anche i bannaresi, diventati, volenti o nolenti, agricoltori, avranno dovuto rinforzare il flusso di ricchezza e di quei fiumi di grano che partivano verso l’Urbe. Risalirà forse a quei lontani secoli la maestria delle tessitrici e dei conciatori di Bannari (il Casalis enumera 7 concerie in attività nel paese ancora nel 1831), che fornivano all’esercito di Roma tessuti e pelli per i militari.

Contuttociò, Cicerone, che odiava la Sardegna (dove è mai stato, mentre suo fratello minore Quinto Tullio fu pretore a Uselis), chiamava i sardi con incredibile arroganza “latrones mastrucati”. I ladri erano dunque… i sardi non i romani (vedi favola del lupo e dell’agnello…). E’ sempre bene ricordare che i romani, a differenza che in altre regioni, in Sardegna non hanno lasciato uno straccio di monumento appena degno di essere segnalato; che i quadri dirigenti politici e civili erano esclusivamente composti da gente proveniente dalla capitale; che hanno arraffato a man bassa dal suolo e dal sottosuolo tutto quanto hanno voluto. Cicerone non sopportava la Sardegna e i sardi per il loro colorito terreo, l’aria pestifera, la lingua incomprensibile, l’orrenda mastruca, le origini africane, la diffusa condizione servile, l’assenza di città alleate di Roma, la resistenza continua contro i romani, il rapporto privilegiato con Cartagine. Ma i sardi hanno memoria lunga, sempre secondo “l’avvocato” (“Sed habet profecto quiddam Sardinia adpositum ad recordationem praeteritae memoriae”: la Sardegna ha qualcosa di speciale che le permette di ricordare le antiche memorie) e contraccambiano Cicerone e i romani con pari riconoscenza e simpatia. Un disprezzo che doveva essere diffuso nella società romana, se anche san Girolamo diceva, con senso ben poco cristiano: “(Christus) Iberam excetram luridos homines et inopem provinciam dedignatus est possidere” (anche il Cristo “si è rifiutato di conquistare quel mostro iberico di provincia miserabile, abitata da uomini dal colorito terreo”. Sembra di leggere il “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi…).

Nelle campagne di Bannari è stata trovata una moneta, preziosa più per la notizia storica che ci tramanda che per il suo valore intrinseco. E’ una moneta dell’imperatore Marcus Salvius Otho, degno “compagno di merende” di Nerone (al quale soffierà anche la moglie) che fu imperatore per circa tre mesi nel 69 d.C.. Essa ci indica che Bannari già nei primi decenni del II secolo era luogo di frequentazione romana. Ricordiamo che Usellus eisteva già dal secondo secolo a.C., e come efficiente colonia romana dal 185 d.C., secondo quanto testimonia la lapide bronzea del patronatus tra Roma e la Colonia Iulia Augusta Uselis, scoperta dal generale La Marmora nel 1828. Le monete, si sa, non camminano da sole: qualche piccolo commerciante, qualche soldato, qualche viandante, qualche schiavo, forse proveniente da Usellus, l’avrà smarrita percorrendo i sentieri di Bannari. In quei tempi le persone erano gli unici media che trasportavano dalla capitale notizie, idee, novità, filosofie orientali, nuove religioni. Forse è, quindi, in questo contesto e in questo periodo storico (attorno agli anni 70 dopo Cristo) che giungono a Bannari le prime notizie sulla nuova religione cristiana che metteva in subbuglio gli ambienti dell’urbe. A controprova, «nel territorio uselitano le testimonianze paleocristiane sono numerose». Io credo che Bannari, sempre stata con Usellus in contatto stretto, sia civilmente sia religiosamente, avrà visto molto presto, come quel capoluogo, i primi albori del Cristianesimo, una convinzione rafforzata anche dall’osservazione dei titoli delle antichissime parrocchie circonvicine, tutti con nomi di martiri paleocristiani: S. Pietro, San Bartolomeo, San Simeone, Sant’Elena, San Sebastiano, San Luxorio (di Forum Traiani), San Giorgio, S. Antioco, Santa Greca, Santa Prisca… Infatti, il titolo di una chiesa, stabilito in genere nel periodo in cui un santo è “in auge” con speciale venerazione, non viene mai cambiato e pertanto si può dire che questi titoli ci danno i parametri temporali di un’esistenza del cristianesimo a Usellus e nelle zone circonvicine.

1) La x sarda ha la pronuncia della j francese di jour – La tilde ~ rende nasale la sillaba interessata – Riferimenti e citazioni sono dei professori: Attilio Mastino, Cornelio Puxeddu, Giovanni Lilliu, Manlio Brigaglia, Carlo Luglié.

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