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Roma (ITALIA)

Mediterraneo come luogo di passioni e sentimenti, così forti e vissuti fino in fondo da poter portare alla distruzione dell’essere umano, se non fosse per quel carattere altrettanto risoluto che contraddistingue i popoli che vivono sulle sponde di questo mare, capaci di sopportare con pazienza e tenacia le sfide della vita e sapersi rialzare per reagire, reinventandosi un’esistenza che sembrava essere andata in pezzi.

È questo uno dei leitmotiv che hanno accompagnato l’edizione appena conclusasi del MedFilm Festival, un appuntamento arrivato alla sua 15ma edizione e ormai diventato un evento imperdibile per chi ama immergersi nelle calde atmosfere mediterranee. Un’edizione coraggiosa nel suo scegliere film che affrontano tematiche importanti, ma a volte taciute per la loro “scabrosità” agli occhi di chi non è capace di guardare nelle profondità dell’animo umano e si ferma solo alla superficie.

Storie come quella raccontata nel film israeliano “Eyes wide open”, che non a caso ha vinto il premio per la sezione “Amore e Psiche”, in cui si affronta senza remore e censure il tema dell’omosessualità all’interno di una comunità chiusa e conservatrice come quella ebrea ortodossa di Gerusalemme. E il tutto in modo così naturale da essere quasi disarmante, come le parole di uno dei due protagonisti che, invece di negare la sua relazione, di fronte alla accuse del rabbino capo risponde semplicemente: “Mi fa sentire vivo di nuovo, come se finora non avessi vissuto”. La società e le sue regole però esigono ed impongono il ritorno alla “normalità” e il ripristino della stabilità familiare messa in pericolo.

Il tema dell’omosessualità è al centro anche del film spagnolo “Ander”, dove però la storia ha come sfondo la vita di una famiglia in un tranquillo villaggio dei Paesi Baschi, la cui routine sarà sconvolta dall’arrivo di un lavoratore immigrato peruviano, e dell’italiano “Diverso da chi?”, dove Piero, candidato sindaco e gay dichiarato, si troverà a dover scegliere fra il compagno Remo e Adele, candidata a vicesindaco.

Quelle che però rimangono maggiormente impresse nella mente dello spettatore sono le numerose figure femminili a cui sono stati dedicati molti dei film in concorso, che esaltano la donna mediterranea forte, determinata e coraggiosa, ma pur sempre misteriosa e sensuale. Così è Hala, bella e inaccessibile protagonista di “Al-‘ouyoun al-jaffa” (“Gli occhi aridi”), capo di un villaggio di sole donne sperduto fra le montagne del Marocco, che ha deciso di mettere al bando gli uomini costringendo la comunità all’isolamento a causa dei “peccati” delle madri e il cui animo, ormai totalmente inaridito, riuscirà a riaprirsi ai sentimenti proprio grazie ad un uomo. O anche Heba, popolare conduttrice tv in “Ehky ya Shehrazad” (“Racconta, Shehrazad”) che, dopo aver raccontato le storie tragiche di tante donne egiziane, vittime dell’egoismo e della violenza maschili, ha il coraggio, diventata inaspettatamente lei stessa vittima, di denunciare in diretta la violenza subita. Violenza a cui la greca Athanasia é sottoposta da parte del marito della sorella e per questo, rimasta incinta, viene cacciata dalla comunità del proprio villaggio, ma trova la forza di ricostruirsi una vita completamente nuova altrove.

Ugualmente indimenticabili la bellezza e la grazia di ‘Ouad al-Ward, schiava marocchina protagonista del film omonimo che fa innamorare il proprio padrone grazie al suo talento nel suonare il liuto e per questo costretta a subire prima l’ira e le cattiverie delle altre mogli e poi un tragico destino; o la fragilità della giovane ‘Aisha del thriller drammatico tunisino “Dowaha” (“Segreti sepolti”), che vive con la madre e la sorella segregate in una villa abbandonata ma che sogna la vita delle belle ragazze di città, preclusale dall’imposizione di antiche tradizioni che presto si scontreranno con quelli che sono i suoi sogni, portando ad un tragico finale.

Mediterraneo dunque come luogo di tradizioni, in alcuni casi ancora vive, in altri dimenticate, in altri ancora in lotta con modelli di vita più moderni alla ricerca di un equilibrio che a volte genera tensioni e rotture, altre volte crea il dialogo necessario ad eliminare i conflitti, in una sorta di viaggio alla riscoperta delle proprie radici. Un percorso complicato, ma capace di portare, con la risoluzione dei misteri o di quell’elemento di incomprensibilità che ha dato origine al conflitto, alla pacificazione dell’animo. Ne è l’archetipo il film marocchino “Le grand voyage”, storia di Reda, nato in Francia da immigrati marocchini e costretto ad accompagnare il padre in pellegrinaggio alla Mecca, attraversando in macchina l’Europa e i paesi arabi dell’Asia fino a raggiungere l’Arabia Saudita. Un continuo cambiamento di scenari, popoli e lingue fa da sfondo ai due protagonisti in un confronto fra due generazioni, fra due mondi completamente diversi che riusciranno ad incontrarsi solo quando sarà troppo tardi. Come a dire che molto spesso il “diverso” è proprio chi più ci sta vicino, e per conoscerlo e comprenderlo è necessario andare lontano, nello spazio e nel tempo.

Così è per Angela, figlia di Athanasia, che dopo aver saputo che l’uomo che l’ha cresciuta non è il suo vero padre, dovrà partire per la Grecia e svelare la verità che le è sempre stata tenuta nascosta prima di poter tornare a casa e recuperare la serenità perduta nel rapporto con la madre, forse più cosciente di ciò che la donna ha dovuto affrontare per farla crescere serena. O per Mona Saber, protagonista del film omonimo, giovane donna francese che, dopo aver inaspettatamente scoperto che il padre era marocchino, parte alla ricerca delle proprie origini e alla scoperta di un mondo completamente nuovo.

Le tradizioni però a volte diventano tabù sociali difficili da scardinare, come in “Sukar banat” (“Caramel”), storia di un gruppo di donne che si incontrano in un salone di bellezza di Beirut e che, fra cerette, manicure, tinture e messe in piega svelano le proprie paure: Rima è attratta da un’altra donna, Nisrine è terrorizzata dalle nozze in vista perchè non è più vergine, Layale ha una relazione con un uomo sposato, Jamale non riesce ad accettare i segni del tempo. O come in “Hijab al-hob” (“Il velo dell’amore”), dove Batoul, dottoressa che sembra destinata ad una vita di successo, non riesce a conciliare la propria vita sentimentale e la sua voglia di modernità con il conservatorismo della società marocchina e i paletti imposti dalla religione.

Ma il Mediterraneo non è solo luogo di antiche tradizioni, di incontro di culture e condivisione di idee, di ricerca delle radici e di convivenza fra popoli, è anche, purtroppo, luogo di conflitti e guerre che spesso nascono proprio a causa dell’ignoranza e della mancanza di dialogo dovute alla scarsa conoscenza reciproca. Così, nel caos seguito agli attentati di Londra del 2005, la signora Sommers e Ousmane, protagonisti di “London river”, cercano i figli spariti nel nulla, ma riusciranno a collaborare solo dopo che la donna, bianca e cristiana, avrà vinto le sue remore e cacciato i pregiudizi nei confronti di un uomo nero e musulmano.
“Nije kraj” (“Non è la fine”) ci ricorda la guerra che ha sconvolto i Balcani, i cui segni profondi restano impressi in Desa, ridottasi a causa del conflitto a fare film porno e notata in uno di essi da Martin, ex soldato, che per misteriosi motivi che si riveleranno solo alla fine, la porta via da quel mondo per farla vivere con sè.

Nel film iracheno “L’aube du monde” la guerra resta sullo sfondo, ma i suoi effetti sono ugualmente devastanti e coinvolgono anche un minuscolo e sperduto villaggio nelle paludi del Tigri e l’Eufrate dove Zahra, appena sposatasi, aspetta il rientro del marito dal fronte. Arriverà invece Riad, suo commilitone, a portare la notizia della morte del giovane e deciderà di cambiare la sua vita per amore della ragazza. “L’idea del film – come ha detto lo stesso regista presente in sala – non è di rappresentare il conflitto, ma di sottolineare come esso sia letale per i più deboli, perché alla fine è sempre il popolo a pagarne le conseguenze”.

 

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