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Il lavoro del pescatore, la sfida infinita tra l’Homo sapiens e il pesce, è oggi più che mai un non finito che vede la tecnologia inseguire comportamenti e abitudini di esseri considerati primordiali. I pesci degli oceani, dei mari, del Mediterraneo riconoscono il già vissuto anche per generazioni e l’esca perfetta, quella che può sembrare il traguardo di pescatori e tecnologia, d’un tratto non funziona più.
Gli ami primordiali costruiti con denti e artigli animali, di legno, di bronzo, di ferro si sono trasformati oggi in oggetti da cattura che sembrano delle vere e proprie opere d’arte. Un’evoluzione tecnologica che, sfogliando i cataloghi delle ditte specializzate, sembra non avere mai fine. Ogni anno infatti cambiano le forme e i colori, ma non è un fatto di moda. Perché si progettano nuovi sistemi di cattura? Può esistere l’esca perfetta? La tecnologia fa la differenza in questo settore? Abbiamo incontrato Nicola Cocco esperto pescatore e collaudatore di esche e attrezzature da pesca. La passione di Nicola per la pesca inizia da bambino. La sua diventa più di una passione o un hobby che gli fa vincere una borsa di studio negli Stati Uniti dove rimane impressionato dalla pesca sportiva e dove i pesci vengono spesso liberati. Dopo alterni lavori da geometra la sua vocazione lo porta a diventare responsabile del Nautica Store di Cagliari che con oltre 1000 articoli è il negozio leader in Sardegna e nel Mediterraneo nel settore della nautica da diporto.

Che passi ha fatto la tecnologia nel settore della pesca? Si può pensare di realizzare l’esca perfetta?

Amo circle

I primi ami utilizzati dall’uomo risalgono a circa 16.000 anni fa e sono stati ritrovati a Timor Est. La loro forma è uguale all’ultima tecnologia degli ami immessi sul mercato nel 2010, sono gli ami circle. I Giapponesi e i Sud Coreani hanno sviluppato i circle. Sono ami fatti in modo che non si possano sfilare dalla bocca del pesce e che questo non possa mordere la lenza. La forma è particolarissima e praticamente uguale a quella di 16.000 anni fa. Spesso l’avanzamento tecnologico ricalca alla fine qualcosa che è già stato fatto ai primordi. Quando si pensa di aver trovato l’amo perfetto, l’amo incredibile, alla fine si ricalca qualcosa che già esisteva.
L’esca perfetta non può esistere perché i pesci hanno una memoria storica che, non si sa come, si tramandano. Appena si rendono conto che la visione di una determinata esca è un pericolo, quella che doveva essere l’esca perfetta, non viene più attaccata e allora bisogna cambiare colori e tipologie.

Il lavoro di chi brevetta e sperimenta le esche è dunque infinito?
Si, un lavoro che preclude assolutamente prove sperimentali di nuovi materiali e prove sul campo, prove vere in mare. Vengono censite le esche che hanno avuto più attacchi in quel momento in quella regione, in quel fondo, con quel clima. Non è detto però che se vanno bene funzionino anche in un’altra località. In questo senso il lavoro non è mai finito, ci saranno sempre novità anche se a volte sono ricicli di cose già fatte. Basti pensare che i primi artificiali, quelli dei nostri progenitori, erano costituiti da ossa di balena e pezzi di metallo lucidati.

Intorno a questo tipo di lavoro ci sono delle industrie?

Innumerevoli tipi di esche artificiali

Si, soprattutto giapponesi e attivissime nella sperimentazione degli oggetti e nelle prove in mare. Loro hanno delle università dove, oltre alla Biologia, la pesca e la cattura dei pesci fanno parte dei programmi di formazione. Gli studenti sono inseriti in navi/factory che girano gli oceani e sperimentano le nuove tecniche. Fanno prove su grosse scale che poi applicheranno nel singolo e nella pesca sportiva. Alla base della sperimentazione ci sono sia la pesca professionale che quella sportiva. Tutto ciò che vale per la pesca professionale difficilmente varrà per la pesca sportiva. Vale invece il viceversa: tecniche e strumenti utilizzati nella pesca sportiva possono trasferirsi nella pesca professionale.

Tu collaudi questi nuovi sistemi personalmente. Quale può essere il contributo individuale rispetto all’industria?
Ho la fortuna di avere in anteprima esche, canne, fili, artificiali ecc. Si cerca di capire in quale zona del mondo possono essere più adatti in base ai colori, i diametri ecc.
Un prodotto può essere tecnologico ad es. per l’Italia o il Giappone, ma troppo avanzato per un’altra nazione. A livello professionale le nazioni più avanzate sono Italia, Giappone e Cor4ea del Sud, a livello sportivo sicuramente l’Italia anche per la sua posizione al centro del Mediterraneo. In Italia non solo si utilizzano le innovazioni, ma la fantasia e la manualità non trovano uguali in nessun altro Paese.

Gli Italiani sono quindi un popolo di pescatori? La pesca sportiva può dare slancio all’economia?
Si, di pescatori sportivi, i migliori al mondo! Il contributo della pesca sportiva è quello di diffondere la possibilità che la pesca diventi vero sport e non solo hobby col solo scopo di acchiappare e uccidere i pesci o vendere pesci che non è il lavoro del pescatore sportivo. Il pescatore sportivo investe somme enormi nell’economia della sua regione, basti pensare solo ai servizi come barca, benzina, attrezzature. Una delle economie più forti negli Stati Uniti è la pesca sportiva, forse la numero uno. Questo vuol dire che genera benessere.
In Italia si investe poco sulla pesca sportiva che potrebbe essere un grosso potenziale, mentre si investe tantissimo sulla pesca professionale che purtroppo dà poco a causa di una scarsa regolamentazione.

Manca una legislazione per la regolamentazione della pesca in Italia?
No, c’è, ma non ci sono i mezzi per applicarla. Se tutti i pescatori professionisti rispettassero le norme ad esempio sulla pesca a strascico, ci sarebbe un ritorno enorme di pesci e di biodiversità in generale. Ma anche se tutti i pescatori sportivi rispettassero il limite dei 5 kg a persona a giovarne sarebbe tutta la fauna ittica.

 “Forse ha già abboccato una volta e se ne ricorda” scriveva Hemingwai nel Il Vecchio e il Mare.   Nella tua attività di pescatore-sperimentatore c’è un episodio che più di altri ti ha fatto riflettere sull’evoluzione del rapporto uomo e pesce e su quella che può essere considerata intelligenza dei pesci?
Una delle esperienze più belle è stata in Tunisia. Da Cagliari si partiva di notte e i viaggi erano molto folkloristici, con barche piccole, persone molto preparate. Non erano viaggi alla cieca, ma tutto veniva programmato. I nostri primi arrivi erano all’Arcipelago de La Galite a 100 miglia da Cagliari e a 30 dalla costa tunisina.
Dopo le prime 4/5 uscite pescosissime era come se la nostra presenza creasse dei problemi: certi di pescare ancora l’impossibile all’improvviso non si prendeva più nulla. I mezzi di cui disponevamo erano assolutamente all’avanguardia per quei posti. In un brevissimo lasso di tempo diventavano inefficaci: i pesci memorizzavano il pericolo e in qualche modo lo comunicavano. Anche a distanza di mesi, tornando nello stesso posto, non si avevano i risultati dell’inizio. Bisognava allora escogitare altre tecniche e cambiare orari per avere qualche cattura. E’ come quando sei sicuro di aver capito tutto e invece devi ricominciare da zero. Nonostante l’abbondanza di pesci ho toccato con mano che questi animali, considerati primordiali, hanno un modo di comunicare che non conosciamo e si trasmettono il pericolo l’un l’altro anche per generazioni. Ci vogliono 3/4 anni per perdere quella memoria e allora ci può essere un rivissuto a livello di esche.

C’è un pesce più furbo?
Potrebbe essere la ricciola. E’ molto intelligente e lavora sull’attacco, quando si rende conto del filo cerca di liberarsi in qualsiasi maniera. Abbiamo messo delle microtelecamere nei fili e il risultato è a volte sorprendente. In 3 ore di pesca senza nessuna azione predatoria c’era un via vai incredibile di pesci predatori che però non hanno attaccato. Nei pesci c’è un misto di istinto naturale e sono portati alla predazione per fame o per difendere il territorio o le uova. Nella cattura che da esseri umani vediamo fuori dall’acqua ci sono storie e comportamenti diversi che cambiano anche con le stagioni.

Dalle piccole barche per la pesca a canna ai pescherecci industriali, secondo una stima che parte dal 2010 a cura del National Geographic, i pescatori sottraggono al mare 78 milioni di tonnellate di fauna ogni anno. Vedi in questo la fine del lavoro di pescatore?

Al centro Nicola Cocco presso il Nautica Store

Penso che le direttive comunitarie possano cambiare sia nel settore professionistico che sportivo e cerco di non pensare in negativo anche se la situazione attuale è disastrosa. Tutte le direttive economiche europee tendono a favorire la pesca professionale e industriale rispetto al ritorno del piccolo pescatore che usa reti e tramagli a misure larghe perché sa che se preleva tutto domani non ci sarà più niente. Se tutti si accontentassero di liberare i pesci più piccoli il futuro sarebbe certo. Manca una mossa pesante a livello regionale, italiano e europeo per favorire una pesca basata su reti normali, senza portare le grosse imbarcazioni a utilizzare i fondi economici per catture spropositate. Ho comunque sempre una speranza che tende all’ottimismo e vedo il lavoro del pescatore, nonostante tutto, ancora senza fine e non avrà mai fine la sfida tra l’uomo e il mare perché il mare ha sempre qualche sorpresa, qualcosa di sconosciuto, qualche segreto nell’acqua e nei suoi suoi fondali.

1 thought on “Il lavoro senza fine dei pescatori-sperimentatori. Intervista a Nicola Cocco

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