Bengasi - manifestazione per chiedere una quota femminile in Parlamento
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Terminata la fase “sensazionalistica” del processo rivoluzionario e del correlato, recente conflitto, la Libia è lentamente scomparsa dall’agenda delle priorità mediatiche d’Occidente, dopo la tragica fine del despota che per 42 anni aveva monopolizzato su di se’ attenzioni e analisi storiche e geopolitiche, come a rimarcare un legame indissolubile e limitato ciecamente tra la leadership autoritaria della Jamahiriyya e le sue ricchezze economiche “esportabili”. D’altronde, erano stati alcuni governi dei Paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo, nei primi anni 2000, a voler riabilitare ad ogni costo il regime del Colonnello affrettandosi a concludere con esso rapporti economici di cooperazione, tacendo sulla sistematica violazione dei diritti umani. Gli stessi che hanno poi fatto improvvisa marcia indietro all’inizio dello scorso anno, ed in nome proprio della difesa della popolazione civile, hanno attuato la risoluzione 1973 dell’ONU che ha dato il via alle operazioni belliche di sostegno agli insorti gestite dalla NATO.

Durante tutto il lungo corso temporale della dittatura, le finestre informative sul Paese nordafricano, in particolare quelle di casa nostra, presentavano un unico binomio costituito dalle relazioni qaddhafo-istituzionali e viceversa. Si parlava dell’uomo d’affari investitore con le sue società familistico statali, delle sue svolte ideologiche e populistiche nella società libica, dei suoi familiari e delle sue guardie del corpo femminili. Era difficile, eccezion fatta per qualche lucida analisi di denuncia, riscontrare cenni sulla società libica, sul suo DNA storico e civile, sulla sua ricchezza culturale e sulla sua complessità sociale. Le relazioni scientifiche privilegiate poi intraprese dal mondo accademico italiano a partire dal 1998, anno della firma del partenariato culturale italo libico, sia pur tentando di sviluppare la strada di un primo, timido tentativo di scrivere una storia “condivisa”, non avevano lasciato tracce diffusorie al di fuori dei convegni e delle giornate di studio “per addetti ai lavori”, spesso peraltro non pubblicizzate con la dovuta enfasi.

Il personaggio rappresentava una sorta di limes dietro al quale non si voleva o poteva andare, forse era effettivamente quello che il vecchio regime voleva che si propagasse, ovvero l’idea che della Libia e dei libici si potesse discutere solo in relazione ai movimenti e ai capricciosi voltafaccia del suo “Qa’id”, che negli ultimi discorsi di propaganda affermava di avere avuto il merito esclusivo nell’aver difeso e diffuso a livello mondiale il buon nome del Paese. A ben guardare, scavando nel recente passato, ci si accorge di come la Libia non abbia mai potuto godere di un suo proprio DNA, cioè di una gestione partecipata e sinceramente slegata da interessi esterni e personalistici, dalla quale scaturisse un’identità statuale: al termine del periodo coloniale italiano il Paese venne amministrato per 8 anni dalla Francia e dalla Gran Bretagna, con il compito di “prepararlo” all’indipendenza, ottenuta nel dicembre 1951. Da allora, e fino al colpo di stato degli Ufficiali liberi, la Libia divenne una monarchia governata da Re Idris al-Senoussi, un debole Stato federale (poi riformato in maniera centralista agli inizi degli anni ’60) dove divisioni regionali, clientelismi e ingerenze esterne (dovute principalmente alla scoperta e allo sfruttamento petrolifero) la facevano sostanzialmente da padrona.

Oggi, sia pure in un contesto incerto e non del tutto definito, il Paese si avvia verso le consultazioni elettorali del prossimo mese di giugno, le prime dal 1952. Le conseguenze della guerra, dei bombardamenti, e delle violenze si ritrovano negli edifici distrutti, bruciati e abbandonati e nei cumuli di carcasse, di detriti e di macerie sia a Tripoli che nelle altre aree colpite, in particolare Misrata e Sirte. Non appare consolidata la capacità del governo transitorio di controllare le diverse milizie presenti sul territorio, e che stanno compiendo atti di vendetta verso i presunti sostenitori del vecchio regime. Eppure, dalle pagine dei numerosi gruppi di sostegno per una Libia veramente democratica presenti in rete c’è tanta voglia di partecipare, di manifestare, di esprimere la propria opinione. Le comunità di libici presenti in patria e all’estero discutono del futuro del Paese e minoranze un tempo vessate, come ad esempio quella berbera, cercano finalmente di ritagliarsi uno spazio di riconoscimento civico e politico. Sono comparse diverse associazioni provenienti da un’emergente società civile che vogliono essere ascoltate e giocare un ruolo nello Stato che verrà. Organizzazioni non governative e gruppi di donne chiedono al CNT una maggiore e più incisiva presenza femminile nel nuovo Parlamento e la fine delle violenze maschili tra le mura domestiche.

La Libia è dunque davanti ad un bivio: che cosa scaturirà dal processo elettivo? Saprà il Paese rendersi veramente indipendente e riuscirà a costituire un DNA identitario unito? Riuscirà a prevalere una logica di ricomposizione o continuerà la battaglia tra fazioni? Ad occhi esterni, le difficoltà appaiono evidenti, ma un timido segnale di cambiamento potrebbe giungere proprio dalla volontà di partecipazione dal basso: forse per la prima volta rispetto al passato i libici hanno la possibilità di discutere e di proporre del proprio avvenire, perché vogliono essere prima di tutto loro a parlarne, e non i tanti, troppi vincoli interni ed esterni, di dittatura e di opportunismo, che sino ad oggi glielo avevano impedito.

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