Immigrati in fabbrica
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Se uno con la parte migliore del proprio occhio – la pupilla – guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso

Platone

Nell’Italia di oggi dove “l’altro” resta inesorabilmente un altro da evitare, da scansare, e, se non lavora, possibilmente “in nero” come il colore della sua pelle, da espellere è in corso una svolta nelle contrattazioni aziendali e per la prima volta, non si tratta di contrattazioni che riguardano la totalità dei lavoratori, ma anche esigenze di singoli gruppi.

Crescono, infatti, gradualmente, in particolare in Lombardia e Veneto, integrazione e tutele a favore dei lavoratori extracomunitari, accordi aziendali che regolano i diritti degli immigrati in fabbrica. Nel corso dell’ultimo periodo, infatti, si è assistito ad un incremento del numero di aziende che nel siglare accordi aziendali ha deciso di soddisfare alcune delle particolari esigenze dei lavoratori extracomunitari, che possono così esercitare una serie di diritti legati alla loro cultura e religione: culto, alimentazione, corsi di lingua italiana e permessi lunghi con accorpamento di ferie (compensabili con recuperi flessibili, previsto per lo più, anche se non esclusivamente, in caso di lutto). Talvolta gli aggiustamenti si sono trovati cammin facendo. All’inizio, infatti, sostengono i dirigenti sindacali, sostenere le diverse esigenze culturali degli immigrati non è stato semplice a causa di una certa freddezza e indifferenza rispetto alle rivendicazioni di matrice etnica, per lo più percepite in concorrenza se non in opposizione con altre forme più “tradizionali”.

Nel corso del tempo, tuttavia, sono stati è raggiunti degli accordi-pilota che hanno facilitato questo percorso e a una rigidità iniziale hanno fatto seguito compromessi di vario tipo: dal permesso di uscire un’ora prima nel periodo del Ramadan, alla concessione di un periodo di ferie aggiuntivo, all’introduzione di un nuovo menù in mensa, etc. Ci sono poi imprenditori che prestano attenzione ai problemi che gli stranieri devono affrontare al di fuori della fabbrica: la casa, il rinnovo del permesso di soggiorno, l’accesso ai servizi sanitari, la scuola per i figli. Deboli tracce di un welfare aziendale che, per sensibilità personale dell’imprenditore o semplicemente per ragioni di opportunità, suppliscono alle carenze delle politiche di integrazione. Non sempre, tuttavia, si tratta di intese scritte.

Le esperienze più significative, con la rimozione di veri e propri blocchi culturali, sono tuttora in corso nella provincia di Bergamo e a Lecco, dove è stata istituita l’apertura di sportelli sul territorio per dare informazioni utili agli immigrati ed è stata regolamentata la possibilità di pregare in azienda come pure la possibilità di richiedere in mensa un menù alternativo. I lavoratori appartengono a tutti gli ambiti: meccanici, alimentaristi, chimici, edili, tessili. Molti di loro, da anni in Italia, da semplici lavoratori sono entrati nei sindacati, e oggi sono in prima linea nella battaglia per l’integrazione, anche attraverso questi diritti.

Anche l’Italia, dunque, si sta gradualmente trasformando in un laboratorio multirazziale e multiculturale: l’infinità umana, gli altri, l’altro, il “diverso”, sono concetti con cui ci troveremo e dovremo fare i conti sempre più spesso, sebbene per tanti aspetti non sembriamo ancora essere in grado di affrontare adeguatamente il problema, forse, perché ci troviamo ancora nel pieno “choc della differenza” (per dirla con Umberto Eco) e a prescindere da manifestazioni eclatanti di xenofobia, anche chi è convinto di un suo radicale antirazzismo si lascia contagiare da pulsioni negative, da sentimenti di rifiuto, disagio o di insofferenza.
La sfida, invece, sembra essere è quella di un cambio di prospettiva rispetto all’alterità dell’extracomunitario; l’obiettivo, in altre parole, dovrebbe diventare quello di ridurre questa distanza tra noi e l’altro anche al di fuori delle mura delle fabbriche, dove l’extracomunitario resta in troppe occasioni ancora estraneo alla nostra società, se non addirittura vittima della diffidenza rispetto alla sua “diversità” individuale e comportamentale, sociale e culturale.

Fonti

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