Santo Pietro, lo stabilimento sperimentale di agricoltura
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Articolo di Rosangela Spina

Sfollare le città, ritorno alla terra, bonifica integrale: il programma di Mussolini per lo sviluppo del latifondo e la dimora stabile dei lavoratori agricoli trova riscontro nei borghi rurali della Sicilia orientale, equiparabili a delle moderne “agro-town” del XX secolo nell’antico Val di Noto.
Le parole di Mussolini, contenute nel famoso discorso pubblicato sul Popolo d’Italia del 1928, suggerivano di «facilitare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’esodo dai centri urbani». Attraverso la legge della bonifica (24 dicembre 1928), in Sicilia l’ECLS (Ente Colonizzazione Latifondo Siciliano) e l’ERAS (Ente Riforma Agricola Siciliana) nel dopoguerra, erano stati gli organi decentrati di controllo sul territorio per la costruzione dei borghi; anche l’iniziativa privata latifondista, già dai primi anni del novecento, si occupava della realizzazione di agglomerati rurali, con case e servizi collettivi, assegnati agli agricoltori secondo le leggi dello scorporo dei feudi.

Il modello di riferimento, dapprima in borghi con servizi essenziali e pochi edifici rurali collegati al territorio circostante, sarà nei casi paradigmatici delle paludi pontine realizzate attorno agli anni Trenta (Littoria, Sabaudia, Aprilia, Pomezia, Pontinia, Guidonia), che faranno scuola per nuovi modelli urbani. Il tema, come dimostrava lo studio di Giuseppe Pagano presentato nel 1936 alla VI Triennale di Milano sull’Architettura rurale italiana, rappresentava un fattore di ripresa delle tradizioni autoctone.

Anche in assenza di un piano specifico, l’organizzazione di un nuovo borgo seguiva regole precise. Il piano di colonizzazione prevedeva un sistema stradale, la forma ed ubicazione della piazza principale, il collegamento con la città e con i terreni circostanti, e delle eventuali direttrici di sviluppo. Gli elementi indicatori del ruolo della borgata erano la chiesa e la sede comunale, caratterizzati da particolari aspetti di visualità ed imposta autarchia. Superfici, ettari, distanze, lunghezze e larghezze, numero delle case e delle famiglie: erano tutti elementi basilari per l’organizzazione degli spazi, nati in funzione dei futuri abitanti e delle campagne da coltivare intorno.

Nella progettazione prevaleva il concetto di centralità dello “spazio pubblico” e di decentramento per lo “spazio privato”. Il sistema viario era infatti solitamente a schema ortogonale, con un asse principale di penetrazione verso la piazza ed i luoghi collettivi, e strade a pettine di distribuzione per le case coloniche e servizi secondari. L’impianto urbano, di conseguenza, era con isolati regolari per le case rurali, uno slargo più ampio per la piazza con gli edifici comunitari e isolati laterali per le abitazioni, infine una strada interpoderale per il collegamento ad anello con i terreni.

Le architetture dei borghi sono particolarmente rappresentative delle costanti dell’edilizia del periodo, rispecchianti le prerogative artistiche del ventennio: composizioni ordinate e rigorose con aspetti tradizionali, miste ad elementi razionali di modernizzazione, tecniche con conglomerati cementizi, e un richiamo alla mediterraneità.

I borghi rurali, colonizzati con la migrazione di contadini provenienti dalle zone limitrofe ma spesso anche dalle province di Ragusa e Siracusa, erano costituiti da un aggregato di case coloniche monofamiliari (da 60 a 100 nelle previsioni di progetto), inserite a corona del nucleo centrale della piazza centrale, contenente pochi e necessari servizi pubblici per la esigua comunità: una chiesa con casa canonica, una scuola primaria, la caserma dei carabinieri, la sede distaccata comunale con gli uffici dello stato civile, un mulino per fare il grano.

Le realizzazioni urbane avvenute in Sicilia per conto dell’ERAS, sia nell’area calatina che in quella etnea, crebbero tra numerose peripezie, difficoltà e interruzioni. Ricordo i casi di Libertinia, Borgo Franchetto, Mussolinia, Mussolinia-Pietro Lupo, borgo Francesco Caracciolo, Borgo Ficuzza. La mancanza di servizi collettivi, oltre quelli strettamente necessari, e di attrattive in genere, ha fatto sì che questi insediamenti del XX secolo abbiano mantenuto un carattere quasi feudale, di ruralità ottocentesca, anche se pur pienamente inseriti in quel moderno programma di “riequilibrio tra città e campagna”.

Questi borghi negli anni 1955-1960 furono progressivamente abbandonati, in seguito alla sopravvenuta industrializzazione e ai nuovi mezzi di trasporto. Gli abitanti, pur continuando ancora a coltivare le terre circostanti al borgo, non vivevano più nelle case coloniche, ma nei comuni limitrofi attratti da nuovi sistemi di vita.

I borghi rurali siciliani, alcuni mai del tutto completati, hanno mantenuto negli anni le caratteristiche architettoniche originarie, ultimo esempio di rapporto rurale tra città e campagna. La loro storia è importante proprio per le vicende della formazione e per l’omogeneità dei caratteri edilizi, unite al tipo originario della casa colonica siciliana collegata al paesaggio circostante, caratteri ne fanno un insieme unico e imprescindibile. Molti di questi borghi sono purtroppo oramai perlopiù abbandonati o demoliti.

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