Dubbi
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di Giulia Squarcina

Quando eravamo ragazzi ci hanno sempre ripetuto “studia o non avrai un futuro”.
Ora ci ritroviamo ad avere una laurea, un master, attestati di lingue straniere, specializzazioni di ogni tipo e chi più ne ha più ne metta, ma nessun lavoro. Anzi no, i più fortunati di noi un lavoro ce l’hanno. A tempo determinato e magari non prettamente inerente con ciò che hanno studiato, ma ce l’hanno.

In questi ultimi anni chi ha un posto con contratto a termine è da considerarsi un privilegiato rispetto a tutti coloro che sono costantemente alla ricerca di un impiego.
Sembra chiaro che l’approccio al lavoro implichi, oggi, l’acquisizione di una nuova prospettiva:
non più la ricerca di un posto fisso, che garantisce uno stipendio per tutta la vita ed una pensione certa, ma la necessità di adeguarsi alla mobilità, all’inevitabile condizione che porta a svolgere lavori diversi in diversi momenti della propria vita, reinventando costantemente se stessi.
Un contratto a tempo determinato si sa, dà ben poche certezze, tiene in costante movimento la mente che progetta, crea e distrugge ad una velocità incredibile. Tutto questo costringe a restare sempre un po’ bambini, a non riuscire ad assumersi responsabilità che definiamo adulte quali un matrimonio, una casa, una famiglia propria. “Fai un figlio e non hai un lavoro fisso? “Sei un folle” e così si resta in casa con i genitori, non ci si può permettere di rischiare, di aprire le ali ancora troppo deboli e volare altrove. L’incertezza di non essere in grado di saper volare.

L’impossibilità di poter accedere ad un lavoro stabile genera smarrimento e sfiducia al punto che la precarietà finisce col diventare un vero e proprio stile di vita, ci si ritrova costretti al prolungamento forzato della condizione di figlio, alla difficoltà di formare un proprio nucleo familiare, all’impossibilità di una concreta indipendenza dai propri genitori. Noi giovani siamo stati a lungo al centro del dibattito sul tema “bamboccioni” e sembra quasi che il giovane di oggi non abbia una reale difficoltà nell’inserimento lavorativo, ma che esista in lui una volontà di permanere nella comoda condizione di figlio. Non è così.

Un tempo il percorso di vita era più lineare, seguiva tappe scandite da un ritmo preciso:
un lavoro fisso, un matrimonio, dei figli e il tutto prima dei trent’anni. Oggi all’età di trent’anni a volte non si è raggiunta nemmeno la prima delle tappe stabilite, figuriamoci una casa propria o dei figli. Questa è la precarietà di vita che siamo costretti ad affrontare oggi, intrappolati tra mura di casa e camerette colorate che diventano troppo strette e soffocano il naturale processo di indipendenza che ogni individuo dovrebbe affrontare in un determinato momento della sua esistenza.

In questa situazione di crisi le aziende puntano sempre di più al contenimento dei costi occupazionali, con la conseguenza che allo scadere del contratto stringono la mano al lavoratore che si ritrova a fare una gavetta, questa sì, a tempo indeterminato.
Sempre più giovani si ritrovano a dover bussare di porta in porta e ad accettare stage e tirocini non retribuiti con la speranza di ottenere il tanto desiderato impiego.
Questo lavoro a tempo determinato avrà anche dei vantaggi? Secondo alcune teorie presentate da psicologi del lavoro, l’aspetto positivo del contratto a termine è di mantenere viva nel lavoratore la voglia di migliorarsi e di sperimentare, di far vedere chi è veramente e cosa può dare, nel poco tempo che si ha a disposizione. Ciò crea un dispendio di energie continuo che pare non abbia mai fine e che pone l’uomo in una condizione di ricerca costante di una motivazione e lo spinge appunto a migliorarsi. Al tempo stesso però questa sensazione di vivere un’esistenza precaria scava pian piano nell’individuo un senso di vuoto e di incertezza che offusca l’ottimismo verso il futuro e crea un velo di nebbia su ciò che accadrà dopo…
La domanda ricorrente che ci si pone è: e dopo?
“Ho fatto una laurea triennale, e dopo che farò?”
“Ora ho un master, e dopo?”

Ci si chiede continuamente cosa ne sarà del futuro e più si va avanti più le domande si fanno più fitte ed insistenti. La precarietà del lavoro è diventata precarietà di vita, di affetti, di futuro. Si è diventati più inquieti, più pessimisti ed insicuri, ma anche più versatili e disponibili al cambiamento, alla costante ricerca di qualcosa di migliore.

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro… precario”.

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