Disagio adolescenziale
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Avete mai pensato di capire qualcuno che parla un’altra lingua? Vi piacerebbe che vi spiegassero un’altra volta cose che già conoscete? Alcune cose non si percepiscono in un batter d’occhio. Sicuramente nella vita di ogni adolescente, ci sono ragazzi o ragazze che nonostante la loro intelligenza hanno problemi, o che nonostante le loro deficienze sono meravigliose. Ma ci sono cose che non si capiscono. La soluzione è semplice: guardare più in là dei loro stati psicologici differenti. Sicuramente sforzandoci di comprenderli ci avvicineremo maggiormente a loro. Ci sono barriere che non vediamo ma che ci sono. Rendiamole visibili! Vi sono, per esempio, bambini e ragazzi, con scarse capacità psichiche o superdotati, che sono individui con un’intelligenza differente i quali, messi nelle condizioni giuste, potrebbero apportare un grande contributo alla nostra società. Ma, a volte, possono sentirsi rari, esclusi e incompresi. Sebbene, a prima vista, alcuni di essi, possano sembrare molto intelligenti, molte volte non vanno bene a scuola, “armano i bulli” o hanno problemi per relazionarsi con i propri compagni di scuola o coetanei.
Spesso si sente dire che “l’adolescente non è né carne né pesce…” ad indicare che non è più bambino ma non è nemmeno ancora adulto. Ciascun adolescente (ex bambino) cambia la percezione del mondo adulto in cui prevale la messa in discussione, di tutti su tutto, che spesso sfocia in atteggiamenti competitivi o sfidanti nei confronti di quelle figure (genitori e insegnanti) visti o avvertiti come gli unici detentori di potere cioè come coloro che impongono regole scomode e faticose.

Intervista alla Dott.ssa Donatella Ghisu, psicologa e autrice del libro “La psicologia a scuola” Sangel Edizioni.

Di cosa si occupa?

Mi occupo di bambini e minori in genere, da più di vent’anni come educatrice, insegnante di scuola materna, elementare ivi compreso il sostegno ad alunni con bisogni speciali e animatrice, cosa che mi ha portato ad approfondire i miei studi (laurea in psicologia, specializzazioni e master) per dare una base teorica a ciò che sperimentavo e osservavo nella mia attività. Psicologa dell’età evolutiva, dello sviluppo e dell’educazione, iscritta all’ordine degli psicologi della Sardegna, sono counsellor psicologico e socio educativo, iscritta all’Albo del Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti dal 2008, conseguito presso la Scuola Superiore in Psicologia Clinica – SSPC –IFREP 93 presso la quale sto terminando la specializzazione in Psicologia Clinica. In ambito scolastico ho spesso avuto l’incarico di rivestire la funzione strumentale per il sostegno e il disagio e per il benessere scolastico e sociale. Le mansioni o responsabilità riguardavano essenzialmente il garantire una reale integrazione degli alunni diversamente abili e sostenere la rete tra scuola, famiglia, enti locali; ancora: sostenere, attraverso la formazione continua dei docenti, una cultura dell’integrazione e della valorizzazione delle diversità.

“La psicologia a scuola”, come nasce l’idea di scrivere questo libro?

Il libro nasce dall’esigenza maturata in tanti anni di lavoro coi bambini sia come educatrice, sia come insegnante di classe, sia come insegnante di sostegno e frutto del mio impegno, dell’osservazione, dello studio e delle attività svolte come figura di supporto e traid union tra le famiglie, la scuola e le equipe socio-sanitarie competenti nel territorio. Ho maturato esperienze in tal senso e ho constatato l’esigenza molto forte di una figura che sia di supporto agli insegnanti, alle famiglie e agli alunni stessi, in modo particolare, nei casi di comportamenti problematici che spesso, ma a mio parere erroneamente, erano etichettati come alunni ADHD e, in tal senso, seguiti farmacologicamente o con terapie inadeguate. Scopo ultimo del mio libro è sottolineare l’importanza della presenza, sufficientemente partecipata, dello psicologo, che sia non solo un supporto per problematiche già “in atto”, ma essenzialmente preventive di taluni comportamenti e situazioni disfunzionali per tutta la comunità scolastica e soprattutto per gli stessi alunni al fine di far entrare e utilizzare come prassi quotidiana, strategie educative e di apprendimento per favorire il benessere di tutti nel pieno rispetto delle peculiarità di ciascuno.

Cosa è la malattia mentale per lei?

Per la malattia mentale è, innanzitutto, necessario distinguere tra patologia con disturbo organico (del quale può essere conseguenza) o disturbo prettamente legato alla funzionalità psicologica (comportamenti, modalità relazionali e di vita in genere, disfunzionali e patogene). Detto ciò ritengo che la patologia psicologica (inerente, dunque, il secondo caso) sia essenzialmente legata a vissuti arcaici disadattavi che – proprio perché vissuti in epoche assai precoci della vita infantile – lasciano, talvolta, un “segno” indelebile riscontrabile in modi di vita alquanto dolorosi e disfunzionali per la persona che li vive e per coloro che gli stanno accanto direttamente o indirettamente. Lorna Smith Benjamin, direbbe che “ogni psicopatologia è un dono d’amore”. Ed io, per la mia esperienza, ritengo tale teoria alquanto valida. La mente si forma all’interno di relazioni fra processi neurofisiologici interni e esperienze interpersonali e, lo sviluppo cerebrale – sia strutturale, sia funzionale – dipende dalle modalità con cui le esperienze (in particolare quelle interpersonali) influenzano e modellano i programmi di maturazione geneticamente determinati dal sistema nervoso. Pertanto, i problemi presentati e i pensieri e i sentimenti a questi associati, sono organizzati da rappresentazioni interiorizzate, da istruzioni acquisite e abituali rispetto a regole e norme familiari.

Ritengo che la patologia mentale altro non sia se non l’unico modo – fra i tanti – che talune persone trovano per stare al mondo e confrontarsi – per gestirlo – col dolore, con la sofferenza che hanno costantemente con sé. Dolore e sofferenza derivati/causati/provenienti dai vissuti della prima infanzia e dalle relazioni – più o meno – problematiche e disfunzionali con le figure primarie di attaccamento che, a loro volta, convivono con le esperienze problematiche e irrisolte della loro infanzia..
Un modo disadattivo per sé di relazionarsi all’Altro che, quale processo di copia, ha come scopo – inconscio – finale, quello di farsi amare da uno o entrambe i genitori, provando a ricucire la trama mai completata o interrotta, della relazione d’attaccamento.
La psicopatologia ha origine in quei modelli relazionali inadeguati appresi nell’infanzia e perpetrati quale unico modo interattivo che garantisce vicinanza e protezione.

Quali sono i disturbi mentali più frequenti che colpiscono l’infanzia in Sardegna?

I disturbi mentali maggiormente riscontrabili in Sardegna sono iperattività con deficit di attenzione, quale condizione di marcata incapacità a mantenere l’attenzione, impulsività e iperattività comportamentale; psicosi; depressione; ansia che, durante l’infanzia, è prevalentemente legata alla difficoltà di lasciare la propria casa e i genitori (angoscia di separazione) e alla paura nei confronti degli estranei; disturbi comportamentali, relazionali e scolastici che sfociano – in particolare in età adolescenziale – in bullismo e dipendenza da sostanze, per arrivare a gravi disturbi antisociali accompagnati da rabbia patologica.
Altri tipi di disturbi infantili riguardano più strettamente il comportamento. Tra questi si ricordano: la bulimia (l’eccessiva assunzione di cibo), l’anoressia (il rifiuto di assumere cibo), i tic (movimenti involontari, ripetuti), la balbuzie (la difficoltà a iniziare a pronunciare le parole che porta a un caratteristico “inceppamento” nel parlare) e l’enuresi (l’impossibilità di controllare lo stimolo a urinare, soprattutto durante il sonno.

Quali sono le cure? Vi sono cure alternative all’uso dei farmaci?

È necessario, per ciò che attiene alle cure, fare una distinzione tra approccio medico e approccio psicoterapeutico: il primo, si concentra essenzialmente sulle terapie farmacologiche, adducendo le problematiche e le sofferenze psicologiche a danni di tipo organico (alcune addirittura di natura genetica); il secondo vede la patologia mentale come una modalità adattiva disfunzionale derivante da altrettante disfunzionali relazioni infantili con le principali figure di accudimento (i genitori). In tal senso ritengo che per le numerosissime patologie psicologiche, quelle che nella fattispecie non siano riconducibili a danni o lesioni di natura organica, a nulla servano le terapie farmacologiche le quali, in ogni caso, possano solo essere una parte della terapia stessa.
La cura alternativa ai farmaci, nei casi di disturbi psicologici non riconducibili a dinamiche biologiche e ad anormalità cerebrali – ma anche in questi casi -, rientra in un più vasto progetto di terapia psicologica non solo del soggetto protagonista del problema presentato, ma di tutta la rete relazionale, affettivo-emotiva e di accudimento che se fallimentare o gravemente compromessa, può portare ad un blocco evolutivo o ad un arresto dello sviluppo.

I protagonisti “secondari” (anche se sono principali, a mio parere) sono, in tal senso, i genitori e, proprio su questi è bene intervenire con la psicoterapia risolutiva delle cause sottostanti i problemi psicologici stessi. Pertanto concludo affermando che, se già le terapie farmacologiche indispensabili in caso di problematiche psicologiche legate a disfunzionalità organiche, da sole non sortiscono l’effetto desiderato – quello di risolvere i problemi che manifestano le patologie stesse -, ancor meno tale effetto positivo possono averlo in quei casi nei quali non vi è alcuna patologia biologica o genetica che, il più delle volte, la medicina attribuisce alla presenza di tali difficoltà.

Quale ruolo significativo ricopre la figura dei genitori nell’insorgere dei disagi mentali nei bambini?

Beh, il ruolo delle figure genitoriali (o delle figure di riferimento significative che le sostituiscono), sono di estrema importanza. È proprio da qui che nascono i disturbi psicologici e le credenze patogene dalle quali scaturiscono comportamenti, pensieri ed emozioni disfunzionali e disadattavi.
Con questo non voglio dire che i genitori, consapevolmente e volutamente, scelgano di creare – col loro modo di relazionarsi al proprio figlio – una relazione qualitativamente patologica. I genitori fanno il meglio che possono alla luce del loro vissuto e dell’eredità e della loro storia che portano con sé nella costruzione di una nuova rete familiare. Ecco perché, lungi dall’accusare tali figure significative di attaccamento, ritengo sia estremamente opportuno, funzionale e risolutivo, intervenire sull’intero sistema familiare e, nel contempo, sui genitori e sui figli, individualmente.
Considerando, inoltre, che numerosissimi studi non hanno dimostrato anomalie cerebrali o genetiche riconducibili o che possano giustificare numerose patologie importanti (e assai frequenti in Sardegna) come l’ADHD, mi piace ricordare i numerosi studi di Bob e Mary Goulding, che, invero, hanno stabilito che l’ADHD – ad esempio – è il risultato di disfunzionalità familiari derivanti da problematiche infantili non risolte dei genitori che hanno una ricaduta – inevitabile – sui figli e, in particolare, su uno di essi che funge da paziente designato.

Lo stesso può dirsi, senza alcuna difficoltà, per la depressione infantile che è spesso la manifestazione di disturbi legati a disfunzionalità nell’attaccamento con le figure significative primarie, le quali – sovente – hanno avuto (o hanno ancora) problematiche depressive; per i disturbi d’ansia e comportamentali-relazionali infantili in genere che poi, se non risolti, divengono delle vere e proprie patologie psichiatriche adulte arrivando a modificare la struttura dell’organismo stesso (amigdala, ippocampo e così via).

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