Scheda manicomio
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L’archivistica manicomiale, nel nostro paese, ha ricevuto un grande impulso a partire dalla legge 180. La chiusura degli ospedali psichiatrici, avviata a partire dal 1978, ha messo infatti in primo piano l’urgenza di salvare, custodire e inventariare gli archivi dell’istituzione manicomiale, mettendoli perciò a disposizione, sia dei singoli studiosi sia dell’intera comunità scientifica.

I livelli di fruibilità degli archivi manicomiali sono almeno due e risultano connessi alla loro tipologia: una fruibilità storica (economica, sociologica e antropologica) e una fruibilità clinica. La tipologia di un archivio manicomiale può essere ricapitolata attorno a quattro tipi di fonte: le cartelle cliniche (documento simbolo della medicalizzazione della follia), i registri, i dossiers medici (singoli fascicoli relativi a diversi ricoverati e composti per lo più da scambi epistolari tra l’alienato, la Direzione medica e la famiglia) e i dossiers amministrativi. I documenti di archivio nascono dalla necessità operativa connessa all’esercizio di specifiche e concrete attività amministrative e istituzionali. La cartella clinica, nello specifico è lo strumento attraverso cui il sapere psichiatrico trova la sua legittimazione nell’istituzione manicomiale e rappresenta una griglia interpretativa oggettivata che organizza lo svolgimento di un processo che, partendo dalla formulazione diagnostica, arriva alla decisione dell’internamento.

L’analisi delle cartelle cliniche evidenzia che solo al momento dell’ammissione in manicomio il medico può svolgere il proprio ruolo professionale: la pratica psichiatrica sembra esaurirsi nella compilazione della scheda e nella diagnosi che porta al ricovero. Una volta stabilita la follia, sono altri i problemi da affrontare. La scheda di ammissione costituisce il momento in cui lo sguardo clinico si oggettiva nel linguaggio che descrive le manifestazioni patologiche producendo discorsi che creano una nuova esistenza, quella del malato mentale. La scheda prestampata intrappola dunque il soggetto nel discorso psichiatrico che si articola intorno a ciò che Foucault definisce “interrogatorio”, non una semplice raccolta di notizie anamnestiche ma la modalità attraverso cui la posizione del medico psichiatra viene riconosciuta e istituita nel momento in cui il soggetto acquisisce lo status di malato. Una sorta di processo circolare in cui il discorso dell’uno fonda il discorso dell’altro e la malattia mentale si presta molto bene a questo genere di dinamica per il suo carattere fondamentalmente incorporeo. Povertà, pubblico scandalo, pericolosità o eccessiva sensibilità, sono elementi che possono sostenere la motivazione del ricovero. Ulteriori prove, per lo psichiatra a sostegno della veridicità del proprio giudizio. Inoltre, essi evidenziano la notevole portata strategica che il riferimento ai valori sociali assume nell’intervento psichiatrico. La posizione del soggetto al momento dell’ammissione è davvero paradossale: se accetterà di identificare il suo malessere con i sintomi di una malattia confermerà la propria follia; se, viceversa, negherà questa possibilità, allora sarà considerato ancora più folle.

La cartella clinica è, dunque, l’istituzione tant’è che una prima lettura dei documenti offre spesso una versione tutta psichiatrica della situazione in esame. Successivamente è possibile recuperare informazioni preziose sui vari individui coinvolti, attraverso tracce di comportamenti, brandelli di discorsi, brevi annotazioni, “frammenti di etica”, come A. Farge chiama “ciò che scaturisce da ogni persona attraverso le parole che adopera per parlare di sé e degli avvenimenti, ossia una morale, un’estetica, uno stile, un immaginario e il suo particolare legame con la comunità”. Migliaia di cartelle cliniche, storie di vita raccolte ed esaminate nel loro incontro con la follia. Ma soprattutto storie di donne e di uomini. Spesso, infatti, tra le carte dei manicomi è possibile rinvenire lettere scritte da coloro che hanno vissuto l’esperienza tragica dell’internamento. Documenti preziosi, che consentono di mettere in luce la dimensione privata, intima di queste persone, restituendoci tracce della loro soggettività, il loro punto di vista, il loro vissuto e la loro esistenza. Voci ignorate o perse nel discorso scientifico e istituzionale, le lettere degli internati e quelle dei familiari costituiscono una testimonianza importante della voce del popolo, una testimonianza diretta, sebbene esigua e frammentaria, di come l’evento malattia mentale si collochi nelle dinamiche relazionali e nell’immaginario popolare. Documenti che permettono di cogliere il punto di vista, l’altro discorso di chi partecipa comunque, nonostante occupi una posizione subordinata; documenti unici perché testimoniano la singolarità del soggetto, la sua specifica posizione nel mondo, il suo punto di osservazione.

Il lavoro di ricerca presso alcuni ospedali psichiatrici italiani ha fatto si che mi imbattessi in prima persona nella “voce” dei soggetti: memorie autografe dei pazienti internati, carteggi tra essi e i familiari, suppliche, denunce di maltrattamenti o vessazioni subite. Sebbene la voce dei soggetti la si ritrovi anche nelle pubblicazioni psichiatriche ottocentesche e novecentesche, essa risulta inquadrata, preselezionata, interpretata e dunque sottratta al suo contesto ambientale e istituzionale ed inserita all’interno delle maglie e delle articolazioni del sapere psichiatrico: “un sapere-potere a pretesa di verità”, per dirla con M. Foucault, che oggettiva insieme al disturbo organico del malato di mente anche la sua stessa persona. L’alienato impossibilitato ad esprimere la sua soggettività malata, può limitarsi tutt’al più ad esprimere la propria oggettività di “cosa malata”: diviene così un caso clinico, oggettivato dal potere del medico che lo incarcera in una malattia costruita e definita in modo da impedirgli di esprimere la sua “sragione”. Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale, viene immesso in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, si rivela un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, il luogo della sua oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita della individualità e della libertà, nel manicomio il malato non trova che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri, l’aver scandita la propria giornata su tempi dettati da esigenze organizzative che non possono tener conto delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionale in cui si articola la vita del manicomio.

Le memorie degli internati, rappresentano, dunque, l’irruzione nello scenario manicomiale di una parola non indotta, non addomesticata, una parola che non esiste in quanto parola non scritta in virtù di un’ingiunzione psichiatrica ma in virtù della sua presenza autonoma e trasgressiva, cioè della sua capacità di manifestare una sorta di resistenza e antagonismo rispetto ai saperi e ai poteri che hanno cercato di controllare e dominare il soggetto internato. Vediamo così apparire in questi documenti: lettere, memoriali, racconti, disegni, poesie o semplici grafismi che spesso non raggiungono la soglia dell’articolazione intellegibile e che, tuttavia, per il loro carattere di scrittura privata, evidenziano gli aspetti informali delle relazioni sociali in quel particolare contesto mostrandone la plasticità e la manipolabilità a dispetto di un’apparente staticità e fissità. Sono documenti che rivelano in che modo le persone esplorano le possibilità e i limiti del loro mondo, un mondo strutturalmente ristretto e rigidamente circoscritto.

Ma le lettere degli internati sono corrispondenza negata, mai inoltrata e quindi lasciata senza risposta. A giustificarne la presenza all’interno delle cartelle cliniche è l’esigenza scientifica e la necessità di sorvegliare i folli, i cui scritti costituirebbero un’ulteriore prova di verità della diagnosi e proprio per questa ragione sarebbero stati incorporati nel dispositivo manicomiale che si configura come istituzione totale caratterizzata dal fatto di assorbire e regolare l’intera esistenza di coloro che vi entrano a far parte e di esaurire in sé tutta la loro esperienza sociale.

Alla luce di ciò, l’archivio offre la possibilità di entrare nell’istituzione, recuperando esperienze reali di individui concreti. Ritornano così i comportamenti, i significati, le rappresentazioni, i sentimenti e i valori. Il lavoro di scavo delle fonti può restituire molto più che la densità umana e la complessità sociale del fenomeno analizzato. Esso infatti restituisce problemi, ipotesi, scoperte che si devono proprio all’incontro tra i materiali d’archivio e le chiavi di lettura con cui la ricerca li interroga.

Fonti:

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