Daniele Monachella
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Cagliari (ITALIA)

Intervista con l’attore sardo a passo di corsa verso il futuro

Lo spunto per parlare di ospitalità nella cultura mi viene offerto su di un piatto d’argento dalla profonda chiacchierata con Daniele Monachella, giovane e bravo attore sassarese, partita dalla sua rilettura in chiave musical – teatrale del romanzo «Dura madre» di Marcello Fois, dal titolo “Nani o giganti” che sarà rappresentata a Torino, presso i Magazzini sul Po dei Murazzi il prossimo 7 marzo, all’interno della cornice più ampia del Festival d’arte Die mauer.

Stavolta, quindi, è Torino, storica capitale del Regno di Sardegna e D’Italia, ad ospitare e a tributare il giusto riconoscimento ad un affresco a tutto tondo della cultura isolana nato dalla sinergia tra letteratura e teatro, tra due spiriti profondamente pervasi di “sardità” quali sono Fois e Monachella.

Sono le due del pomeriggio quando intercetto al telefono Daniele Monachella, attore sassarese di poca età e molta esperienza: il primo ossimoro.

Al telefono risponde una voce baritonale e decisa che si staglia nel sottofondo ritmico – mi dice – della metropolitana di Milano.

So che dietro quella voce c’è un giovane uomo creato per vivere in teatro e per il teatro; ho già avuto modo di vederlo e ascoltarlo nell’interpretazione di alcuni testi letterari quali l’intenso e snervante “Lavoro ai fianchi” di Luigi Manconi e Marco Lombardo Radice e l’epico “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu. Volendo anche giustamente prescindere da una innegabile prestanza fisica, necessaria ma non indispensabile per una forte presenza scenica, Daniele mi ha colpito moltissimo per la capacità di attanagliare lo spettatore attraverso un personale linguaggio di voce, sguardo e gesto. In un fulminante secondo ho pensato: questo ragazzo è il teatro fatto persona.

Una volta emerso dall’underground, la voce di Daniele si fa un po’ più affannata, sia perché cammina veloce, sia secondo me, perché si emoziona raccontandomi dei suoi prossimi progetti, del perché si trova a Milano e della sua bella storia.

Subito gli domando del prossimo impegno torinese.

Mi spiega che non è casuale la sua scelta del testo, all’interno del quale ridisegnare i sardi – quasi un trattato antropologico – come un popolo di potenziali giganti per coraggio e forza morale, condannati ad essere nani da una invidia atavica che sfocia nella vendetta e nella violenza della faida, per riscattarli, alla fine, attraverso una interpretazione in bilico tra dramma e comica ironia, accompagnata dalla musica blues melancholic.

Mi incuriosisce la nascita della sua manifesta passione per il teatro.

E mi racconta di un ragazzino di 13 anni che alle scuole medie respira l’aria del palcoscenico, se ne innamora repentinamente grazie a illuminati professori di lettere e musica, di distrazioni adolescenziali e sport agonistici che rendono momentaneamente silente questo amore, di un definitivo, folgorante desiderio di recitare giunto al termine delle scuole superiori, grazie alla frequentazione del circuito CEDAC suggerita dall’insegnante di lettere.

Mi confida, poi, che a spostare la sua attenzione dalla scelta di diventare carabiniere sono state altre più preponderanti componenti intrinseche al suo animo, ahimè poco presenti nella vita militare: la libertà (di pensarla come si vuole) e specialmente la poesia.

Ma la poesia da sola non basta – mi dice – è l’impostazione rigorosa legata al gesto e alla plasticità della figura, la disciplina fisica del controllo del proprio corpo perseguita in anni di duro lavoro di allenamento, il trasferire alla recitazione una energia che non può arrivare solo dalla dizione o dalla voce, che permettono ad una persona comune di iniziare a pensare di poter recitare.

Mi reputo davvero fortunato ad aver incontrato, nelle mie esperienze di formazione, maestri di teatro e di vita come Emmanuel Gallot Lavalleè, Coco Leonardi, Michele Monetta, Francesco Manetti, Peter Clough e, ultimo ma non ultimo, Toni Servillo; personalità dalle caratteristiche assai diverse tra loro, ma accomunati dall’intendere il teatro come una scuola che continua per tutta la vita, dai quali assorbire bellezza e spiritualità, che mi hanno trasmesso il saper rispettare le regole e la disciplina del teatro inteso come un gioco dalla regole molto dure (ulteriore ossimoro)”.

Nel frattempo penso tra me e me che per avere 34 anni le esperienze “sul campo” sono di notevole valore ed importanza.

Daniele continua a raccontare. ”Attraverso queste figure ho compreso che diventare attore implica un processo di continuo divenire; pensare di essere “arrivato” significa non possedere rispetto né per se stesso, né per il proprio pubblico che viene a teatro per deliziarsi lo spirito e trovare in esso una visione antitetica della monotonia quotidiana.

Per me, un attore deve sempre porsi delle domande e, attraverso la propria recitazione, deve far stimolare le stesse domande nel suo pubblico stimolandone e immergendo nell’immaginazione.

Essere costantemente sorpresi e costantemente sorprendere, ecco la chiave per intraprendere questo mestiere fatto di passione e sacrifici. Perché non è semplice essere attore; significa abbandonare certezze economiche, significa sacrificare obiettivi certi per inseguire la poesia e il sogno. Significa perseguire un ideale, immedesimarsi negli altri e non, come pensano in molti, abbandonare il proprio io, ma anzi rafforzarlo sempre più perché essendo consapevoli di sé si può essere consapevoli di chi si interpreta”.

E ancora narra aneddoti, Daniele “Quando recentemente ha portato in scena “Il contrabbasso” di Suskind era il giorno del 121 anniversario della nascita di Antonio Gramsci ed io, non ancora pago, alla fine della rappresentazione ho sentito il bisogno di rendere omaggio al grande Sardo, attraverso la lettura appassionata di un passaggio da “Odio gli indifferenti”.

E’ tangibile che anche Daniele Monachella abbia in odio l’indifferenza. Trasuda forza e passione civile mentre mi parla del suo combattere lacci e lacciuoli della burocrazia per poter fare teatro con la sua compagnia, la MABTEATRO di Sassari, di cui per innegabile modestia, si sente “aggregatore”, e non ancora “capocomico”.

E’ appassionato mentre osserva che l’innegabile morte della meritocrazia (ancorchè sia mai esistita – n.d.r.) derivi dalla miopia di coloro a cui spettano le decisioni.

Si percepisce che la sua è una vocazione al teatro quasi mistica, e “anche se” dice “esistono altre forme di interpretazione che non disdegno come la TV e il cinema, mi sento nel mio profondo legato all’immediatezza teatrale, alla polvere, al legno, e ancora prima di tutto, al fissare negli occhi il mio pubblico”

La nostra conversazione, poi, si sposta amabilmente sul cinema e sulla tv.

Scopro così che nel 2011 ha lavorato addirittura con Woody Allen in The Bop Decameron. Si parla anche di fiction e tv. Mi ricorda le partecipazioni nello scorso anno alle fictions “Don Matteo 8” di Basile e “I Cesaroni 5” e prima ancora, nel 2010, la partecipazione a “Mia Madre” di Ricky Tognazzi.

Ancora, mi spiega di come non ami affatto le cosiddette “girandole mondane”, i ritrovi e le feste in cui farsi vedere per entrare nel “giro”; di come, pur essendo sassarese, si senta anche un po’ barbaricino nell’animo e nel concetto di onore mentre si mescola ai “Tumbarinos” nel giovedì grasso di Gavoi.

Improvvisamente mi dice “Sai da dove arrivavo quando mi hai chiamato al telefono? Da un provino al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano per partecipare ad un Master diretto da Giancarlo Giannini. Avrei potuto accedere a questo Master anche attraverso una borsa di studio concessa dalla Regione Sardegna, ma sai, non sono stato ammesso tra i beneficiari a causa dei criteri di valutazione”.

Ironicamente sorride mentre mi spiega con grande fierezza che sostiene le ingenti spese per la sua formazione da solo, come da sempre ha fatto.

Oddio – penso – non vorrà lasciare il teatro per il cinema?

Sembra leggermi nel pensiero. “Una sola cosa posso affermare con certezza: non abbandonerò la recitazione teatrale”.

Lo sento sorridere sornione e immagino gli occhi verdi lampeggianti di allegria. Sono tranquilla: l’amore tra Daniele Monachella e il teatro non finirà mai.

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