Luciana Littizzetto
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di Silvia Nebbia

La risata fu la prima presa di coscienza del nostro essere “umani”. Nel ridere si riconosceva un’appartenenza “culturale” a un gruppo, distaccandosi così dalla pura corporeità animalesca.

Nei riti ancestrali, attraverso la maschera, si cercava di liberarsi della “bestia”: il simbolo rappresentava il distacco e lo storicizzava nel racconto. Dai riti religiosi, al teatro e le maschere divennero “tipi fisici”: lo stupido, il porco, l’affamato, il seduttore, l’eroe, il cattivo… Fino ai Pantalone ed Arlecchino. E le donne? Non c’erano. Dalla Commedia dell’Arte in poi, venivano rappresentate da uomini en travesti. Tendenzialmente, le donne erano di due generi: la bella e la brutta. La prima era desiderata, l’altra derisa. Oppure la “santa” e la “peccatrice”. Una approvata socialmente, l’altra… Non ci sono “maschere” al femminile, in senso stretto: Colombina ha il viso scoperto e non è un caso. Ancora oggi, in teatro, per ricoprire un ruolo, è necessario avere le “physique du role”: o si è Otello o Romeo, o Giulietta o Lady Macbeth. Innamorati, eroi e servi, hanno fisicità diverse giocoforza, altrimenti non si può “giocare alle storie”: non si capisce niente. Trucco e posticci, strano a dirsi, non servono.

Di un bravo attore si dice: ha la “maschera” drammatica, o comica, come residuo di tutto ciò. Ma la VERA maschera, nello Zanni/Arlecchino ha la funzione di evocare quel mondo ancestrale da cui originiamo. Attraverso questo “media” richiamiamo a noi l’animale, la bestia, il satanasso, in parole semplici le funzioni “primarie”: accoppiamento, fame, defecazione, violenza, ecc… Ed ecco che Arlecchino ha “sempre fame”, ruba, mente, per esempio ma, soprattutto, che il “comico” (la maschera, non l’attore brillante, cioè un Benigni, non un Pieraccioni), si riferisce alle funzioni corporee per far ridere. Vedi “Inno del corpo sciolto” ma anche Dario Fo e Daniele Luttazzi, per dire. Quella risata, che, ancora oggi, ci fa rispecchiare in un’idea, in un gruppo ed esorcizza la paura dei nostri istinti. Il comico “rompe” gli schemi sociali e culturali, mette alla berlina, stigmatizza e dileggia. Alle donne, è riservato il compito di “elevare” lo spirito: essere buone e belle, educate, remissive, sante, madri, vittime oppure “dannate” se non si adeguano, ma niente “cacca” o pipì, o sesso o istinti animali: non “sta bene”. Una “signora” non può parlare/fare cose volgari, nemmeno “per scherzo”. Una donna, non può “usare il suo corpo” in rapporto con gli istinti, tantomeno in pubblico. A meno che… non sia una “puttana”.

Oppure non getti alle ortiche la sua femminilità. Magari angelicandosi come un Pierrot, o atteggiandosi a bimba: l’importante è che non sia “donna”. Ma solo la brutta è veramente comica (ha la maschera). Una donna bella non fa mai ridere (in teatro, nella vita è un’altra storia…ma non troppo). È desiderabile e crea “identificazione positiva”: è un modello da invidiare non da irridere. Seduce, affascina, ma non fa ridere. Monica Vitti è un’attrice brillante, non una vera comica. Poi ci sono i caratteri: le Bice Valori, le Franca Valeri e le emule recenti. Il comico tout court quello a battuta sciolta, quello “animalesco”, è un’altra cosa. E LA comica? Quasi non c’è. Pochissime e di recente invenzione. Si paga pegno, è dura scegliere questa strada di autocondanna sociale e non sempre funziona. Non è capita, si equivoca.

Luciana Littizzetto è esilarante, grazie alla sua intelligenza, all’arguzia dirompente. Ma ha la “fortuna” strepitosa di poter contare sulla maschera, che, per altro, usa divinamente. E così molte altre, dalla Marchesini in poi. Littizzetto, però, ha fatto qualcosa che nemmeno Marchesini, pur straordinaria, ha fatto: ha usato lo “zanni”, la “bestia” che è in noi e l’ha usata AL FEMMINILE, viva la faccia. Littizzetto dice “minchia”, è scomposta, ha i peli (simbolici), vuole copulare, si mette le dita nel naso e manda affanculo. Eppure è e resta una signora. E’ grande.
Littizzetto è una paladina della liberazione culturale. Osa, dileggia, usa il corpo (bestiale), non si ferma mai alla forma, anzi, la distrugge regolarmente. Littizzetto è femmina poco “femminile” ma non repressa, non negata. E’ il giullare, il clown Augusto e non quello “bianco e lunare”. Lei non è asessuata e anche se ironizza sulle sue scarse beltà è pienamente “cittadina di se stessa e del mondo”. Non è uno scarto, un’emarginata, una “cozza”, gioca, bensì, una giostra di ruolo da cui esce vincitrice. Con tutti i peli, per così dire. Certo, Angelina Jolie, vince anche lei e alla grandissima ma non crea niente di nuovo, anzi. Le Littizzetto sono iconoclaste rispetto allo stereotipo (vivaddio!) e se è vero come è vero che un Benigni attinge alla cultura contadina, va da sé che ci devono essere anche le contadine. Insomma, è tutta una questione di “corpo”, come sempre. Il più grande comico istintivo che abbiamo è uomo, porta i tacchi e fa cucù… ciò significa una cosa sola: il futuro è donna. E che Dio ci aiuti.

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