L'uomo della folla, immagine di Carlo Bragagnolo
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Bisognerebbe avere un poco di comprensione, nel senso di compassione pietosa, nei confronti della nostra società occidentale ed il suo senso della clandestinità. Una società che ha impiegato un paio di millenni per calibrare la sua visione culturale, mettere in essere i parametri e le regole dell’accettazione del sé, incluse le inclinazioni della diversità. Ora bisogna che ci comprendiamo da subito, immediatamente.

Clandestino non è primariamente un problema di riconoscimento giuridico e di una scala di diritti e doveri all’interno di uno stato. Questa è solo un’ultima fase, conseguenza di un qualcosa di molto più profondo ed inconscio e che risiede in ognuno di noi. Clandestino è un qualcosa che pone il problema della diversità, all’interno di modelli sociali dove la diversità è stata già posta come categoria sociale, programmata, dove il clandestino mette terribilmente in discussione questa stessa definizione del diverso, della differenza.

Bisognerebbe capirla, ripeto, con una vera, autentica, compassione carica di pietà, non propriamente un bel sentimento, questa società che ha faticato per tanti secoli a tirar su un edificio di valori e regole sociali, vederla minata nelle fondamenta a causa di quattro poveri disgraziati di fame e di vita catapultati, trascinati, dal mare, nel proprio terreno, dentro la propria casa. Perché il problema te lo pongono questi disgraziati. Arrivano senza chiedere permesso, sono sporchi, puzzolenti, disperati, senza un soldo e senza grandi pretese. Ti chiedono solo il diritto di vivere liberi e con dignità. Ma non hanno soldi e, soprattutto, sono diversi da te. Altra cultura, autenticamente altra, negli usi e nei costumi, nella religione, nella visione della vita. Stanno dicendo, con la loro sola presenza, con il solo essersi manifestati, che il tuo pavimento è una farlocca costruzione arbitraria piena di difetti, stracolma di porte chiuse da secoli, piene di ruggine, di incrostazioni e di polvere, qualcosa su cui hai fatto crescere la vegetazione e hai dimenticato, per necessità sociale. Questi personaggi, questo malefico scherzo, sono il tuo rifiuto personale.

Tralasciando per un attimo la questione giuridica in sé, saremmo noi in grado di considerare clandestino un americano o un francese o un tedesco o uno spagnolo? Saremmo davvero in grado, nella nostra testa e nella nostra visione del mondo, di considerarlo un clandestino? Meglio, saremmo in grado di concepire un italiano medio, di buona famiglia, professionalmente affermato al pari di altri milioni di italiani, con famiglia e tutto il resto, un clandestino? Riusciamo ad immaginare noi di poter appiccicare l’etichetta di clandestino ad un nostro connazionale, in qualunque luogo esso risieda? La risposta è no, non ci viene proprio. Ma questo avviene per un pensiero sottostante, ovvio, scontato. Egli non è un diverso, è come noi. Possiamo pensare che sia un criminale, un tossico, uno sbandato, un ladro, un assassino, uno che è scappato da guai fiscali, giudiziari, uno che è caduto in disgrazia economica, ma non riusciremo mai a considerarlo un clandestino, ovvero un diverso. A priori noi abbiamo stabilito che egli viene dalla nostra stessa scala di valori e regole, che è conforme ad un sistema sociale.

Un sistema che, si badi bene, non ha escluso la sua teorizzazione dell’anti-sistema. Egli può essere un italiano contro il sistema, uno diverso dalla massa, ma secondo una declinazione della diversità che è già inclusa nel sistema stesso. Esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a bizzeffe, banali, socialmente inoculati per marketing e consumo di massa, per teorizzazione scientifica e sociologica. Si può pensare ai tatuaggi come una nuova forma di affermazione della propria diversità all’interno di una società che nel duemila ha veicolato il messaggio della pubblicazione di sé con ideogrammi riconoscibili. Si può pensare alle frotte di giovani ribelli del sistema costituito, come ad esempio i giovani comunisti, oggi diremmo ribelli giovani di sinistra ecologici. Sono ribelli nel vestire, nei locali, nelle bevute. Sono programmati, sono tutti uguali, sono prodotti riconoscibili. Li puoi osservare nei loro tratti comuni, universali. Portano gli sciarponi di lana grossi e lunghi tre metri, capelli accuratamente disordinati, borse di stoffa penzolanti, lettori appassionati di testi sociali, nietzscheani per definizione senza averci mai capito niente e forse senza nemmeno averne mai letto realmente un testo, adoranti Pasolini, per definizione orgogliosi fumatori di canne, per diritto sacrosanto precari di un lavoro pubblico che è loro dovuto senza se e senza ma. Sono i diversi accettati, sono i diversi della società previsti e confezionati. Bene, un clandestino mette in crisi tutto questo. Non torna niente, né il conforme né il diverso. Insomma è differente per davvero, perciò è uno sbaglio, un rifiuto, uno scarto, immondizia da incenerire. Non previsto nel sistema. Anche se ti poni il problema e vai dallo psichiatra o da un terapeuta evoluto alle nuove forme di neuropsicanalisi, ti rendi conto, irrimediabilmente che tutte le teorie che vengono messe sul tavolo non si adattano allo scopo. Non torna niente, né le condizioni del piacere, del diritto, del dovere, della felicità o della fede. Tutto diverso. E questo non è facile da accettare, non è propriamente bello vederti sbattuto in faccia, con tanta sfacciataggine, che sei il prodotto di consumo di una teoria scientifica e di un modello sociale.

Non ti è facile accettare che hai passato una vita intera ad accettare te stesso e a modellarti al fine di essere conforme all’ambiente, ad essere accettato dagli altri e stare bene con te stesso perché hai cominciato a riconoscerti all’interno della mappa sociale in cui ti muovi. La realtà del clandestino mette in discussione il sé, il rifiuto che è stato fatto di sé, ti porta a scoprire un terribile scarto che si è verificato tra il tuo incedere quotidiano per inerzia e quello che è il tuo sé nella sua espressione concreta, in tutte le sue peculiarità e differenze.
Clandestino è perciò questo: mancata accettazione del diverso da Sè, dell’Altro da Sè, di ciò che non è inserito e non può essere inserito all’interno della struttura sociale a cui si appartiene.
In Italia abbiamo la rozzezza leghista che esplicita perfettamente il momento in cui la condizione di clandestinità viene a cadere ed in cui il clandestino si trasforma magicamente e semplicemente in uno straniero accettato e fatto proprio, ovvero quando il soggetto in questione sposa in tutto e per tutto le regole ed i valori fondanti della società in cui è entrato in contatto. In altre parole diventa uno straniero nel momento stesso in cui rinuncia e abiura tutto ciò che lo rende Altro, si conforma alla cultura di chi lo ha ospitato e rinuncia a tutte le differenze che lo hanno determinato in quanto essere nel mondo.

Questo è lo stesso processo che ogni uomo, nella sua determinazione di essere, ha fatto all’interno del proprio sistema sociale. Ha abiurato tutte quelle parti di sé che lo rendevano completamente incompatibile con i parametri sociali, ha costruito maschere e adottato valori, usi, costumi e gusti riconoscibili e accettati nell’ambiente circostante. Si è reso accettabile per essere accettato ed incluso nel sistema. Il primo clandestino siamo noi con noi stessi. Siamo il risultato del nostro fallimento come “essere in sé” per essere come “essere nel mondo”. Siamo poveri per nostra stessa scelta, siamo morti per paura di essere vivi, per il terrore che le nostre diversità ci rendano soli e abbandonati, rifiutati, scartati. Giochiamo ad affermarci nella società, a ritagliarci il nostro piccolo spazio, la nostra piccola grande conquista, per poi evitare la notte, nel mentre, descritto meravigliosamente da Proust, che volge tra la veglia ed il sonno, di fare i conti con il nostro abisso interiore, quell’urlo agghiacciante che afferra la gola e che ci dice quanto siamo clandestini di noi stessi. Lo abbiamo fatto per avere un posto nel mondo, per non soccombere alla paura, perché avere paura non è una colpa od un difetto, da questo punto di vista, certo, è umanamente comprensibile. Ma è altrettanto inaccettabile ed incomprensibile come tutto questo sia conseguenza diretta di un sostrato scientifico e filosofico che da secoli produce modelli di realtà “perfetti” e chiusi, praticamente puri, in cui il diverso e l’alternativo convivente è escluso a priori e per definizione. Tutto il sapere si basa fondamentalmente su questo postulato scientifico: un sistema è valido fino a che non se ne dimostra la sua fallibilità. Perciò laddove si scopre una falla si migliora il sistema e lo si corregge, il diverso rimane fuori, non preso in considerazione.

Eppure millenni di storia umana avrebbero dovuto insegnare il contrario, avrebbero dovuto far cambiare decisamente direzione, perché la storia umana è un susseguirsi di esempi di come il diverso e la sua accettazione abbiano portato crescita, evoluzione e ricchezza. Bisognerebbe immaginare per estremo un uomo puro, chiuso in un ambiente controllato e privo di qualunque influenza esterna, un uomo senza contatti con nessun altro, totalmente isolato.

Bene, quali conoscenze, quali scoperte, quali progressi, quali meraviglie quest’uomo potrebbe mai realizzare? La conoscenza dell’altro da sé non è solo e meramente una messa in discussione di se stessi, ma un arricchimento non richiesto, una contaminazione che ci completa come essere, che diventa lo stimolo inatteso e pauroso che ci permette di realizzare qualcosa di nuovo. Soprattutto determina e rende possibile una naturale estensione del sé che trova così la possibilità di realizzarsi concretamente come “essere in sé nel mondo”. Maggiore è la ricchezza del linguaggio e delle sue possibilità espressive maggiore è la possibilità di dare forma e sostanza alle proprie differenze e ricchezze. Il sospetto per cui questo non avvenga, tanto a livello scientifico quanto a livello sociale, è che un siffatto modello sociale evoluto sarebbe privo di controllo, non manipolabile. Perciò meglio un’umanità clandestina nell’anima ma controllata che un umanità libera e viva, ricca.

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