alda merini
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di Laura Zimbardo

Poesia

“Le mie impronte digitali

prese in manicomio

hanno perseguitato le mie mani

come un rantolo che salisse la vena della vita,

quelle impronte digitali dannate

sono state registrate in cielo

e vibrano insieme ahimè alle stelle dell’Orsa Maggiore.”

Alda Merini

Poesia e follia: binomio strettissimo nella vita di Alda Merini, una vita travagliata, difficile. Nelle sue opere ha cantato l’amore, colorandolo con una sensibilità sopra le righe. La vita di Alda Merini è stata segnata dalla terribile esperienza del manicomio anche se lei stessa diceva: “Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno. Per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara”. Per Alda Merini il manicomio è stato “il grande poema di amore e di morte” e le sue parole e le sue liriche testimoniano la volontà di non demonizzare gli ospedali psichiatrici, anzi renderli luoghi della Poesia. Il manicomio e la follia, con il loro corredo di evocazioni, epifanie e fantasmi, erano, infatti, temi ricorrenti nei suoi elaborati e nelle sue interviste.

“Il manicomio è una grande cassa di risonanza

E il delirio diventa eco,

l’anonimità misura,

il manicomio è il monte Sinai,

maledetto, su cui tu ricevi

le tavole di una legge

agli uomini sconosciuta”.1

Merini definiva la sua sofferenza psichica come “ombre della mente” con cui nel tempo ha saputo convivere e, anzi, per certi versi il dolore che ha attraversato le è servito per scandagliare più in profondità il suo animo:

“Il dolore della malattia mentale è qualcosa che ti urla dentro e non riesce a uscire. Il dolore che ti avvolge in manicomio a volte è solo un pretesto per una condanna più grande, una calunnia del destino, o forse un castigo di Dio. Sono convinta che dal dolore possa nascere una grande passione per l’ Aldilà. Si vorrebbe morire, però al tempo stesso si ha la speranza di vivere2”.

Sono tanti i momenti in cui la Merini parla della solitudine e del silenzio del manicomio. Un silenzio grave ed ingombrante, spezzato, a volte, solo dalle grida penetranti di chi era legato al proprio letto con fascette a polsi e caviglie. L’abbandono che domina un luogo del genere è descritto con gli occhi di una donna consapevole del proprio male. Uguale eppure diversa dalle altre malate, fragilissima e distante dal mondo. Per la Merini l’essenziale è stato raccogliere respiri e battiti negli abissi della malattia, da cui trarne una prodigiosa resurrezione linguistica e poetica.

Molte sono le opere della Merini che raccontano i dolori e le sofferenze provocate dalle “ombre della mente” e infiniti i versi densi di lirica e poesia. La poetessa stessa diceva:

“La pazzia è solo un’altra forma di normalità che può generare poesia, quella degli spiriti tempestosi, avvolti dal vortice del loro genio creativo che attinge linfa vitale dal delirio”.

Vogliamo porre l’attenzione in particolare su una di queste opere, un libro in prosa “La pazza della porta accanto”, pubblicato da Bompiani nel 1955. Il libro inizia con un incipit in versi e le pagine in prosa, sono divise in quattro sezioni “L’amore”, “Il sequestro”, “La famiglia”, “Il dolore”. Al termine dell’opera, oltre la “Notizia bibliografica”, è riportata, con il titolo “La polvere che fa volare”, una conversazione con Alda Merini che ci fa scoprire molto della sua vita, sofferta ma vissuta a pieno. L’opera è formata da annotazioni, pagine di diario senza data, massime, racconti di amori trovati e perduti, sentimenti, paure e ricordi riconducibili alle esperienze nei manicomi, che seguono tutti un flusso di pensieri non lineare in cui, nonostante la prosa, la stessa arte poetica viene sfiorata più volte. I momenti della sua vita scanditi il più delle volte dalle “ombre della mente” ruotano all’interno di ogni pagina e da racconti e appunti si trasformano in poesia e confessione poetica. Riportiamo qui alcuni passaggi altamente lirici del libro :

“La follia è una delle cose più sacre che esistono sulla terra. E’ un percorso di dolore purificatore, una sofferenza come quintessenza della logica. La follia deve esistere per se stessa, perché i folli vogliono che esista. Noi la chiamiamo follia, altri la definiscono malattia” (pag.146)…. “La verità è che non se conoscono le origini. La follia è forse anche un disturbo organico, ma non si sa. Io penso che esista un germe sotterraneo, un virus della follia che può attaccare l’organismo, annientarlo. Si, credo che la follia possa essere virale e diventare come un cancro”(pag.147).

Non vi sono dubbi che i diversi internamenti furono per Alda Merini un’esperienza devastante, sempre da “La pazza della porta accanto”:

“Baratro oscuro, deflagrazione,

scintilla che muove il passato,

caviglie che si rompono

nel correrti dietro, dolore,

tu sei la lepre viva

che le mie mani conoscono

fin dall’infanzia”

poesia alda meriniUn inferno inizialmente subito, poi voluto, quello dell’internamento: la dolorosissima separazione dalle persone care, le violenze, gli elettroshock e il clima di soprafazione che si respirava in quegli ambienti avevano come obiettivo quello di spazzare via i sentimenti e rendere invalide le persone. Eppure, nonostante tutto questo, Alda ha sublimato la follia, l’ha trasformata in poesia, capace, con il suo linguaggio semplice e diretto, crudo e veritiero, di esorcizzarla, poiché anche la follia “merita i suoi applausi”.

“L’esperienza può insegnare a camminare sul filo del rasoio e a vivere sempre in pericolo di cadere, ma non si può usare la pazzia con uno scopo. Il delirio dà alla luce figure, visioni,realtà sommerse. La follia è un capitale enorme, estremamente prolifico, però lo può amministrare solo un poeta” (ibidem pag.143).

Sono parole intense le sue, così attaccate alla vita da non essere in grado di temere nulla, nemmeno la morte. La follia fu per la Merini una preziosa risorsa, le consentì un processo di ricerca nelle profondità del suo animo e dell’animo umano in generale. Alda Merini ha trasformato la malattia, il dolore, la penosità del vissuto, in elevatissimo e struggente canto poetico, la poetessa è riuscita a raccontare qualcosa di quella oscura realtà, a volte a noi così prossima da far paura.

Oggi Alda Merini non c’è più ma ci ha fatto dono delle sue parole e dei suoi versi, che sono ancora qui, a disposizione di chi, nonostante la paura dell’oscurità di questa malattia, ha il coraggio e la forza di interrogarsi sulla condizione umana che nonostante la sua fragilità, è sempre ricchezza, amore e poesia.

Da “La Terra Santa” – Alda Merini – 1984

La Terra Santa
Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.

Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso le messe,
le messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.

Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E, dopo, quando amavamo,
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.
Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.

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L’uccello di fuoco

L’uccello di fuoco
della mia mente malata,
questo passero grigio
che abita nel profondo
e col suo pigolio
sempre mi fa tremare
perché pare indifeso,
bisognoso d’amore,
qualche volta ha una voce
così tenera e nuova
che sotto il suo trionfo
detto la poesia.
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Le più belle poesie
Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da argenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.

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Laggiù dove morivano i dannati
nell’inferno decadente e folle
nel manicomio infinito,
dove le membra intorpidite
si avvoltolavano nei lini
come in un sudario semita,
laggiù dove le ombre del trapasso
ti lambivano i piedi nudi
usciti di sotto le lenzuola,
e le fascette torride
ti solcavano i polsi e anche le mani,
e odoravi di feci,
laggiù, nel manicomio
facile era traslare
toccare il paradiso.
Lo facevi con la mente affocata,
con le mani molli di sudore,
col pene alzato nell’aria
come una sconcezza per Dio,
laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole,
delle briciole bionde e odorose
che scendevano a devastare
sciami di rondini improvvise.

1. Da “La terra santa” opera con la quale Alda Merini vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale.

2. Dall’intervista rilasciata ad Antonio Gnoli Lettere dalla follia, “La Repubblica”, il 24 agosto 2008.