Alan Bennet
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Nel libro “Nudi e crudi” Alan Bennet narra la stravagante storia di un avvocato e della sua spenta consorte, Mr e Mrs Ransome, che usciti una sera dalla loro bella casa londinese per andare a vedere “Così fan tutte” di Mozart, al rientro si trovano ad affrontare un bel rompicapo: la loro casa è stata svaligiata dai ladri, i quali non si sono limitati a portar via le cose preziose e, magari, a rompere tutte le altre, ma hanno proprio portato via tutto.

Se nessun mobile, nessun vestito, nessun quadro, nessuna fotografia è stata lasciata, (perfino l’arrosto che attendeva lo scatto del timer e la moquette), è palese che non può trattarsi di un semplice furto. Naturalmente durante le novanta pagine del libro si scoprirà la verità ma, nel frattempo, proprio il furto che è un azzeramento completo, impone ai due protagonisti di reinventarsi un’intera vita, seppure nello straniamento più totale. Un libro che può essere letto certamente per la storia fine a se stessa ma che, senza ombra di dubbio, incoraggia la riflessione e un aspetto in particolare colpisce più di altri: il riferimento a quella corrente di pensiero che nello “svuotamento” vedrebbe un inizio colmo di aspettative e di futuro. Alcuni anni fa era divenuto addirittura di moda aderire a questo movimento che sosteneva la necessità, durante il corso della propria vita, di buttare via tutto a partire dal guardaroba per poi passare a tutti quegli oggetti che nel corso degli anni tendono colonizzare tutti gli spazi disponibili. La medesima scuola di pensiero sosteneva che sarebbe stato opportuno cambiare, oltre al guardaroba e alla casa, perfino il lavoro e le amicizie, nel tentativo, forse, di tirare a lucido le nostre vite che lentamente con gli anni si arenano: un tentativo di abbandonare tutto per recuperare e buttarsi verso qualcosa d’altro, qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto.

Tutto questo è affiorato alla mente mentre riflettevo sulle rapide trasformazioni e gli incessanti flussi socio-culturali che rendono sempre più impellente la formulazione di una nuova riflessione sull’uomo e sui suoi spazi. A destare interesse a questo proposito sono le nozioni di precariato e flessibilità, che in nome di una promessa di vita ci scippano il passato senza prospettarci un futuro. Una sorta di elettrochoc che azzera l’io per riedificare una personalità nuova e non più identica a quella precedente. Del resto, in un mondo sempre più accelerato, in cui il mito della flessibilità ha travolto ogni cosa, il metodo è quello del continuo reset delle nostre menti che permette, da un lato, di liberarci delle conoscenze passate, non più utili e, dall’altro, di fare spazio in una mente per forza di cose limitata. La surmodernità, per dirla con Marc Augé, non cerca il ricordo, ingombrante e impegnativo, ma l’oblio che ci rende vergini per nuove conoscenze ma mutilati e privi di personalità e spessore. In fin dei conti se si chiede agli abitanti della surmodernità di cambiare lavoro, competenze e abitudini ogni sei mesi, non è pensabile adottare un modello di vita che privilegi il lavoro stabile, le relazioni sociali durature, le conoscenze acquisite e sedimentate nella testa. A tal proposito, Zygmunt Bauman sostiene che oggi tutto sembra congiurare contro i vincoli permanenti, i progetti che durano una vita intera, obbligando gli attori sociali a scelte e revisioni continue in una successione di situazioni sempre diverse. Il processo di individualizzazione è caratterizzato sempre più dal diffondersi di un sentimento di insicurezza, che diviene condizione normale della quotidianità, e finisce con incidere profondamente sul senso delle identità sia individuali che collettive. Quando l’incertezza cresce oltre una certa soglia, la capacità progettuale tradizionalmente intesa, il “progetto di vita a lungo termine”, risulta inevitabilmente compromessa. L’accelerazione sociale a tale clima d’incertezza che caratterizza la “seconda modernità”, oltre a mettere in crisi i “progetti a lungo termine”, tende a modificare anche la struttura temporale dell’identità, influenzando i processi di costruzione del sé.

Sia il passato che il futuro vengono ingoiati dal presente, che invece che dilatarsi fino a fermare il tempo, diventa una scheggia impazzita, inserita in un divenire vorticoso composto di singoli momenti pulsanti sì ma sempre meno collegati tra loro e privi di senso. Non c’è da stupirsi allora se a causa dell’accelerazione della surmodernità, le nostre biografie, le nostre storie di vita, individuali e collettive, si frammentano e, prive di proiezioni sul futuro, si scollegano dal passato. La surmodernità ha dissociato spazio e tempo creando un presente globale sempre più velocemente percorribile, ma ha anche dato vita ad una dimensione spazio-temporale priva di senso proprio in cui non si avverte il bisogno di individui ancorati al luogo e al tempo. Si è fatta avanti l’esigenza della più totale e straniante delle trasformazioni dall’individuo al non-individuo. Si è resa necessaria la presenza di individui con un unico senso totalitario: uomini a una dimensione che è una dimensione a due teste: il produttore/consumatore anonimo che, deprivato del senso dello spazio e del tempo, può essere impiegato (quando non schiavizzato) in qualunque luogo ed in qualunque contesto temporale, senza che apparentemente ne risenta.

In realtà, proprio quest’epoca obbliga gli individui a fare i conti con una serie di cambiamenti: il concetto stesso di “casa” non è più riconducibile al modello tradizionale, sinonimo di permanenza e stabilità. L’uomo in funzione della temporaneità si trasforma in una “singolarità qualunque”, diventa nomade, attraversa quotidianamente frontiere culturali, fisiche e immateriali, per adeguarsi alle condizioni di flessibilità della vita e del lavoro. La crescente mobilità delle persone cambia, dunque, il sentimento dell’abitare; le città sono attraversate da flussi di individui che hanno intrapreso un viaggio alla ricerca di nuovi stimoli, di nuovi e differenti modi di vita: nomadi urbani ai quali le città dovranno costruire nuovi porti per trasformare in opportunità il loro perdersi. Non turisti con i loro riti di massa, ma un popolo di fluttuanti, alcuni per necessità molti per scelta, tutti comunque alla ricerca di una possibile svolta nella loro esistenza, un capitale di energia e di innovazione vitale per le città; espressione di quella mobilitazione universale nella quale sembra destinata ad evolversi ormai la condizione del cittadino.

“La singolarità qualunque non ha identità, non è determinata rispetto a un concetto, ma neppure è semplicemente indeterminata; piuttosto essa è determinata solo attraverso la sua relazione a un’idea, cioè alla totalità delle sue possibilità. Un’indagine sulle nuove soggettività metropolitane che partisse dal lavoro o dal consumo non troverebbe una classe omogenea, ma una costellazione di percorsi esemplari che difficilmente possono essere fatti convergere in un luogo comune; costellazioni di singolarità che appunto abitano le zone liminari tra lavoro e non lavoro. Queste zone liminari sono luoghi singolari, luoghi che le singolarità del lavoro flessibile e precario già abitano, spesso immaginari o provvisori, inattuali o mutevoli, soste e pause lungo gli attraversamenti, terre appena intraviste, che saranno i luoghi del futuro, luoghi che confinano con tutto il possibile. Un luogo singolare è, dunque, un luogo abitato o abitabile da singolarità, che si configura a partire da singolarità laddove per singolarità intendiamo la condizione in cui vive chiunque non abbia più luoghi comuni dove riconoscersi. Chiunque non abbia più luoghi comuni dove riconoscersi abita, dunque, luoghi singolari. I grandi luoghi comuni della modernità erano il prodotto dell’industria; la fabbrica o il quartiere operaio nella città industriale erano luoghi che per quanto degradati e avvilenti permettevano a una comunità di riconoscersi. Oggi non solo il lavoro non produce più luoghi comuni, ma già da tempo nemmeno il consumo si presenta più come un terreno sul quale giocare le identità”.

All’abitare temporaneo si accompagna anche la costruzione immateriale del sentimento dell’abitare, la ricerca di una familiarità. Alla città spetta il compito di costruire i luoghi per la formazione di questo sentimento. Il carattere nomade con cui abitiamo la contemporaneità della città ci precipita in una condizione di disagio per l’assenza di quelle forme connaturate all’abitare e che sono normalmente esperite nel luogo in cui si nasce e si vive. Da questa assenza, percepita in un altrove, nasce il desiderio, la voglia che ci porta ad una ricerca ostinata dell’abitare. I luoghi per abitare sono allora identificati con quelli dove si può consumare la città, riconoscerne e viverne le diverse identità. La vita è nella città, è per la strada: si vuole mantenere la vicinanza con i luoghi della scoperta e delle possibilità. Il rapporto dell’abitante con la città cambia, diventa un rapporto del tipo consumatore-città. La città diviene erogatrice di beni da consumare: non la curo, la uso per il tempo che ne posso disporre e mi aspetto che sia efficiente, vivibile e facile da usare.
La surmodernità con una promessa fallace, l’eterna giovinezza (raggiunta con il moto perpetuo patologico della vita precarizzata, con le lusinghe della chirurgia estetica e le promesse della chimica), ci ha trasformato in una battigia spazzata dalle onde dove ogni orma impressa nella sabbia dura solo per l’intervallo tra un’onda e un’altra senza lasciar traccia di nessun passaggio. Questo è quello che ci chiedono di essere e forse a questo bisogna ribellarsi.

Fonti

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Augé M., NonLuoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano,1993

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Bauman Z., Consumo,dunque sono, Laterza, Bari, 2008

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Bennett A., Nudi e Crudi, Adelphi, Milano, 2001

Giddens A. , Cogliere l’ occasione : le sfide di un mondo che cambia, Carocci, Roma, 2000

Palazzotto E. (a cura di), Abitare la temporaneità : l’architettura della casa e della città, L’Epos, Palermo, 2003

Rovatti P.A., La posta in gioco : Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano, 1987

Rudofsky B., Architettura senza architetti,Editoriale Scientifica, Napoli, 1977

Ruffilli M., Il governo delle cose, EDIFIR, Firenze, 2003

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www.luoghisingolari.net

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